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di Fabio Ghiandaia e Andrea Mustoni

La scienza della conservazione – appropriatamente definita “una scienza di crisi “ da M. Soulè, uno dei suoi padri fondatori, in virtù della elevata rapidità con cui si sta depauperando la biodiversità e per cui urge trovare soluzioni che ne garantiscano la sopravvivenza – ha sempre avuto come fine ultimo il mantenimento delle popolazioni (animali e vegetali) a livelli numerici tali per cui la loro permanenza nel tempo sia garantita o non venga compromessa dalle modificazioni del territorio e dai vari disturbi di indubbia origine umana che hanno caratterizzato e caratterizzano tuttora il rapporto che la nostra specie manifesta con la natura; soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale (XVIII sec.).
Nonostante ne comprendessero i limiti concettuali, fino al decennio scorso, i biologi della conservazione studiavano le differenti popolazioni in modo principalmente isolato, spesso anche decontestualizzandole rispetto all’ambiente in cui esse andavano a collocarsi, e, comunque, raramente considerandole all’interno di un contesto di più ampio respiro volto a comprendere le relazioni ecologiche esistenti tra le diverse specie. Da alcuni anni a questa parte, invece, e come conseguenza dei progressi conoscitivi ottenuti in campo scientifico e tecnologico (principalmente dovuti alla massiccia implementazione dei calcolatori, dei software che simulano la dinamica di popolazione e dei software GIS che permettono l’integrazione di un elevato numero di dati e di parametri ambientali), si è osservato un cambio di tendenza – sia negli approcci che nei metodi di studio propri di questo ramo della scienza. È infatti emersa sempre più prepotentemente la necessità di comprendere e di gestire le differenti popolazioni in modo più ampio ed unitario, inserendole nel contesto ambientale specifico di cui fanno parte e considerandole soprattutto in relazioni alle altre componenti dell’ecosistema con cui interagiscono maggiormente.
Seguendo una simile interpretazione, il Parco Naturale Adamello Brenta ha deciso di sviluppare un percorso di ricerca personale e innovativo (se considerato all’interno del panorama nazionale dei Parchi) promuovendo uno studio di avanguardia improntato su un approccio di tipo sistemico alla fauna. Il progetto, la cui durata è stata stabilita in tre anni e che si concluderà nel 2009, vedrà impegnato lo sforzo lavorativo congiunto di un cospicuo numero di persone afferenti ad ambiti formativi diversi ed appartenenti ad entità amministrative distinte (Servizio Foreste e Fauna della Provincia Autonoma di Trento, Parco Naturale Adamello Brenta, Università degli Studi di Sassari, Associazione Cacciatori Trentini). Il progetto prevede lo studio ed il monitoraggio delle cinque specie di ungulati selvatici presenti all’interno dei confini del Parco (camoscio, muflone, stambecco, cerco e capriolo), e che, in virtù di una simile ruolo funzionale, potrebbero interferire reciprocamente le une con le altre determinando effetti inaspettati e sconosciuti sulle dinamiche delle rispettive popolazioni. Da un simile lavoro ci si aspetta di ottenere importanti inferenze sia da un punto di vista scientifico (per arrivare a sciogliere la querelle tuttora esistente circa una importanza, da parte delle relazioni interspecifiche, nel governare le dinamiche interne ad una comunità animale), sia da un punto di vista pragmaticamente più gestionale per comprendere in che modo poter più efficacemente intervenire per gestire e conservare al meglio le popolazioni di ungulati presenti sul territorio.

Val Rendena
Panorama della Val Rendena visto dal versante destro orografico
della Val Nambrone (foto V. Viviani)

Gli ultimi mesi del 2006 hanno visto i membri dell’Ufficio Faunistico del Parco impegnati nell’effettuare sopraluoghi in diverse zone territoriali del Parco. Questi sopraluoghi hanno permesso di individuare un’area di studio ideale, posizionata sulla propaggini orientali del Massiccio Adamello-Presanella, la quale si contraddistingue per la simultanea presenza di tutte e cinque le specie di ungulati selvatici oggetto dello studio. Il progetto, per essere meglio gestito, è stato scorporato in quattro distinti sottoprogetti, ognuno dei quali presenta obiettivi e scopi distinti. In ultima istanza, l’integrazione dei risultati ottenuti dai singoli progetti permetterà di costruire un modello comprensivo ed esplicativo delle modalità con cui le diverse specie di ungulati interagiscono e si influenzano reciprocamente.
Di seguito sono sintetizzate le caratteristiche e gli obiettivi principali dei quattro sottoprogetti.

Sottoprogetto camoscio
A partire dai primi anni ’70 e fino ad oggi, a seguito di una gestione razionale ed oculata, la popolazione totale di camosci presente sul territorio di tutta la provincia di Trento è passata da una stima di circa 5.500 capi ai 24.250 censiti nel 2006. Da una tale elevata consistenza, si è riconosciuta una evidente importanza della specie nell’influenzare le dinamiche ecosistemiche delle fasce alpine, anche se tuttora sono sconosciuti i possibili effetti che queste possano avere nei confronti delle popolazioni di altre specie. Il sottoprogetto prevede la cattura di un massimo di 20 esemplari che saranno muniti di radiocollare e, una volta liberati, saranno monitorati e seguiti nei loro spostamenti mensili ed annuali. L’obiettivo principale che ci si propone consiste nell’ottenere informazioni riguardanti la selezione degli habitat operata da questi animali, la struttura della popolazione (con particolare riferimento al numero dei capretti partoriti annualmente – espressione dell’incremento annuale ed indice dello status qualitativo della popolazione), oltre a vari aspetti relativi all’ecologia comportamentale della specie. L’analisi dei dati fornirà un quadro importante nell’individuazione delle preferenze alimentari; importante indizio questo di una possibile esistenza di fenomeni di interferenza o di competizione con altre popolazioni di ungulati selvatici.

Camoscio in mantello invernale
Esemplare di camoscio in mantello invernale (foto V. Viviani)

Sottoprogetto muflone
Il muflone, unico elemento faunistico alloctono del progetto, fu introdotto nei territori del Parco nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso, per motivi essenzialmente venatori. Il sottoprogetto prevede, in modo analogo a quanto esposto a proposito del camoscio, la cattura di 20 individui che saranno anch’essi muniti di radiocollare e che saranno quindi seguiti e monitorati durante tutto il corso dell’anno. Anche in questo caso si applicheranno le medesime tecniche di studio utilizzate per il camoscio, al fine di rendere i dati ottenuti il più confrontabile possibile; va infatti precisato che, attualmente, in ambito scientifico e gestionale risulta molto dibattuta la possibile esistenza di competizione tra il camoscio (elemento autocono della fauna alpina) ed il muflone (elemento alloctono e di provenienza mediterranea), con possibile danno per la specie alpina; a tuttora non esistono ricerche né dati mirati ad ottenere un simile set d’informazioni, per cui, ancora una, volta il Parco si attesta come uno dei principali interpreti della ricerca in ambito nazionale ed internazionale sia scientifico che gestionale.

Maschio di muflone
Maschio adulto di muflone fotografato in Val Nambrone (foto P. Collini)

Sottoprogetto stambecco
La specie, presente nuovamente nei territori del Parco a partire dal 1995, a seguito di un importante programma di reintroduzioni svolto in concertazione con analoghe immissioni effettuate sui versanti lombardi del Massiccio dell’Adamello, ha mostrato di accrescersi scarsamente, qualora paragonata a popolazioni naturali affini. Considerata l’importanza della specie per la biodiversità alpina, della quale costituisce uno degli emblemi più rappresentativi, è forte l’esigenza di approfondire e comprendere le conoscenze in merito alla popolazione ed alle sue peculiarità eco-etologiche. Continuando un lavoro iniziato alcuni anni fa, il monitoraggio, effettuato principalmente a carico degli individui marcati e muniti di radiocollare liberati sul territorio, si prefigge come obiettivo principale una miglior identificazione della distribuzione della popolazione, la comprensione di quali siano i parametri che maggiormente influenzano la sua dinamica (soprattutto in riferimento alle possibili interazioni con le altre specie – il camoscio in primis) e la valutazione della capacità dispersiva individuale (importante fattore di perdita, per migrazione, di individui).

Gruppo di stambecchi
Gruppo di stambecchi in riposo (foto Della Ferrera & Turcatti)

Sottoprogetto cervo-capriolo
Le due specie costituiscono elementi faunistici di sicuro interesse sociale, naturalistico e venatorio. Lo studio ha come fine l’approfondimento delle dinamiche sull’uso reciproco dello spazio e si avvale della tecnica del Pellets Group Count (conta per gruppi di feci) effettuato lungo percorsi disposti su curve di livello collocate a 100 m di quota le une rispetto alle altre. Il confronto informativo rispetto alla presenza-assenza, ed alla eventuale compresenza delle due specie, può essere di certo interesse se si considera la recente espansione territoriale della popolazione di cervo e la contemporanea diminuzione demografica del capriolo che ha caratterizzato l’ultimo quinquennio. Lo studio ha come obiettivo primario la comprensione, qualora possibile, dei fattori che determinano una contrazione numerica nella popolazione di capriolo favorendo invece l’espansione del cervo.

Maschio di capriolo
Maschio di capriolo (foto Zanghellini)

Maschio di cervo
Cervo maschio adulto (foto Corradini)

Per ulteriori informazioni:
Parco Naturale Adamello Brenta
Via Nazionale, 24
38080, Strembo, (TN)
Pagina Web: www.pnab.it
Indirizzo e-mail: fauna@pnab.it

Fabio Ghiandai (Università degli Studi di Sassari) e Andrea Mustoni (Gruppo di Ricerca e Conservazione dell’Orso Bruno – Parco Naturale Adamello Brenta)

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