di Massimo Maddaloni
Prologo
Nel corso del tempo le linee guida per l’allevamento delle api si sono consolidate in un canone di regole che hanno ben servito gli apicoltori per molte generazioni. Negli ultimi decenni, tuttavia, sono intervenuti dei cambiamenti globali che hanno reso obsoleta se non propriamente dannosa una larga parte del canone dottrinale. Alcuni apicoltori più di altri perseguono strade radicalmente diverse accettando maggior lavoro ed un minor raccolto di miele in cambio di una miglior qualità di vita negli alveari. Le nuove linee guida costituiscono l’apicoltura eretica che alcuni apicoltori praticano apertamente, altri di nascosto, vuoi perché non vogliono bisticciare vuoi perché pensano che essa conferisca vantaggi nei confronti della concorrenza. Altri ancora si stanno convertendo alla spicciolata ed alla chetichella.
Fig. 1. Alcuni di noi non hanno interesse a lavorare con ceppi puri soprattutto se dobbiamo lavorare in ambienti estremi. Queste api bottinano su un fiore di hollyhock durante la breve stagione delle Rocky Mountains. Sono stanziate a 1500 metri. Da novembre ad aprile stanno sotto la neve a 20-30 sotto zero e da aprile a giugno può nevicare in ogni momento.
Il problema
Dalle Terre del Sol Levante alle piovose spiagge dell’Oregon passando dalle Azzorre, e dai fiordi norvegesi alle gelide lande del Capo Horn attraverso i Tropici e l’Equatore le colonie di api spariscono a centinaia di migliaia ogni anno. Le cause e concause di questa ecatombe sono molteplici, interconnesse e non sono ancora state chiarite. Il fenomeno è stato definito Sindrome da Spopolamento degli Alveari (SSA) più noto con il nome inglese di Colony Collapse Disorder (CCD). L’ unica solida conclusione che al momento la scienza ufficiale è stata capace di produrre è che … non si capisce il perché di questo fenomeno. Nei rapporti della scienza ufficiale, che l’ autore conosce approfonditamente, si notano chiarissimi segni di lobbying e ostracismo che i vari gruppi esercitano nei confronti di teorie e dati generati dai gruppi concorrenti. Per come il sistema scientifico globalizzato è organizzato, diventa estremamente difficile ottenere finanziamenti e produrre pubblicazioni, soprattutto quelle che vadano contro i canoni comunemente accettati. In apicoltura eretica, che non si basa necessariamente su esperimenti a blocchi randomizzati, dati analizzati statisticamente, peer review etc. etc … la spiegazione è molto più chiara. Nel corso degli ultimi decenni è intervenuta una serie di cambiamenti che, singolarmente, potevano essere sopportati dal macroorganismo alveare ma che nel loro complesso hanno portato al suo collasso. Il primo e probabilmente il più devastante di codesti cambiamenti è la movimentazione incontrollata delle merci: stiamo trasportando attraverso il globo terracqueo patogeni e parassiti più rapidamente di quanto le api riescano a sviluppare resistenza e tolleranza. L’esempio preclaro è l’acaro Varroa destructor, comunemente chiamata varroa che in pochi decenni si è sparso ai quattro angoli della Terra. La varroa era un parassita relativamente innocuo confinato all’Apis cerana con la quale nel corso dell’evoluzione aveva stabilito un modus vivendi mutualmente accettabile. La colonizzazione dell’Apis mellifera da parte della varroa, presumibilmente causata dall’ inserzione di alveari di Apis mellifera nell’ areale di Apis cerana, ha creato nuove opportunità proprio per la varroa. La virulenza della varroa nei confronti dell’Apis mellifera denota i tipici segni di una colonizzazione recente. E’ infatti noto che con il tempo ogni predatore, se non si voglia estinguere, si adatta per non sterminare i propri ospiti (questo concetto sembra non essere chiaro all’Homo sapiens sapiens … ma non divaghiamo). Un’altra evidenza circostanziale in tal senso è la considerazione che Apis mellifera caucasica (l’ape russa), venuta a contatto con la varroa circa 200 anni prima di altre sottospecie di api, possiede una discreta tolleranza. Analogo discorso sulla globalizzazione dei trasporti vale per una pletora di virus delle api che si trovano sotto forma di quasispecie attraverso il Globo. Stante che né la varroa, né i virus, né la Vespa velutina etc, etc. comperano biglietti di aerei e navi, l’ unica conclusione logica è che siano stati sparsi dalle attività antropiche di trasporto.
C’è un buon accordo che al momento attuale una delle cause più gravi della scomparsa delle api sia proprio la varroa che, oltre ad indebolire le api, trasmette tutta una serie di virus. Obbedendo alla logica dell’industria agrofarmaceutica, gli apicoltori, anziché iniziare programmi di selezione, si sono affidati all’utilizzo di acaricidi chimici di sintesi. Tali acaricidi, oltre ad essere tossici anche per le api, nel corso dei decenni sono diventati inefficaci perché la varroa, come era prevedibile, ha sviluppato resistenza. Alcuni acaricidi sono stati messi fuorilegge perché tossici o teratogeni. Dati recentissimi indicano che la varroa potrebbe diventare resistente anche all’acido ossalico tramite l’acquisizione di una specifica microflora in grado di metabolizzare tale composto. In altre parole nel corso degli ultimi decenni abbiamo efficientemente selezionato api sempre più deboli e bisognose di trattamenti, e varroe sempre più resistenti ed aggressive (si fa fatica a capire ma è proprio così). La paventata estinzione della api causata da un mancato uso di acaricidi è smentita sia da fatti aneddotici, che dati della scienza ufficiale, nonché dalla pratica eretica. E’ infatti stato dimostrato che lo 0-5% delle colonie sopravvive alla varroa in assenza totale di trattamenti chimici. Questo è stato verificato da centinaia di apicoltori eretici e riportato anche dalla scienza ufficiale relativamente alle colonie ferali sopravvissute in California allo stato selvatico. Anche l’Apis mellifera sicula fu ufficialmente recuperata da colonie inselvatichite e quindi non soggette a trattamenti. Per finire l’USDA ha avviato un programma di miglioramento genetico basato sulle api russe le quali, come accennato in precedenza, presentano una serie di meccanismi genetici specifici di tolleranza, alcuni dei quali sono codificati da geni che stati mappati sui cromosomi. La moria globale di api ha causato un’ aumento della domanda di nuclei a basso costo, la quale domanda è stata largamente soddisfatta abbassando i costi di produzione ma soprattutto importando centinaia di migliaia di colonie da Paesi nei quali gli standard sanitari sono per lo meno discutibili ed i controlli sanitari inesistenti. Soprattutto durante un’epidemia nessuno si sognerebbe mai di importare in Italia migliaia di vacche non quarantenate ed a maggior ragione da un Paese extracomunitario. Per qualche ragione che non si comprende facilmente la stessa logica non si applica alle api. Anche la domanda di regine è aumentata di pari passo ed è stata soddisfatta tramite le stesse strategie. A parte i problemi sanitari, il costo di produzione delle regine può essere abbattuto dell’ 80-90% ricorrendo a stratagemmi che producono regine deboli e poco fertili. Oggi una regina che duri un’ intera stagione e traghetti la famiglia attraverso l’ inverno è considerata buona. Fino a qualche decennio fa le regine restavano produttive (a livello amatoriale) per 2, 3 anni ed oltre. Inoltre nella produzione delle regine dovrebbero essere inclusi piani di incroci che da un lato preservino la purezza dei ceppi, ma dall’altro evitino l’inbreeding (consanguineità). Questo concetto non è chiaro alla maggior parte degli apicoltori ma è chiarissimo a coloro che commercializzano i riproduttori di tutte le altre razze da reddito per le quali vengono infatti stilati ed utilizzati i pedigree. Oggi sono disponibili ceppi di api certificati “puri” ma privi di valutazione sull’inbreeding. “Purezza” ed “inbreeding” vanno di pari passo: più un materiale è geneticamente puro e maggiore è l’inbreeding e da questo dilemma non esiste via di uscita. Il punto di equilibrio tra purezza accettabile ed eccessiva consanguineità è un parametro discutibile ma sicuramente da valutare. Senza entrare in dettagli tecnici, l’ incrocio tra le regine ed i fuchi figli, il metodo principe di produzione dei nuovi stock, è in assoluto il metodo peggiore per evitare l’inbreeding. Quando si paga una regina 10-20 euro si ottiene una regina che vale … 10-20 euro. Una regina breeder costa 200-250 euro. D’ altro canto chi può permettersi una regina da 200 euro quando gli alveari sono flagellati da Morte e Pestilenza per cui di regine ne devono comperare molte e le regine breeder hanno serie probabilità di non sopravvivere attraverso la prima stagione? Non si può concludere questa sezione senza parlare delle pratiche agricolturali perché, se le cause della CCD e sindromi associate sono multifattoriali, l’ agricoltura contribuisce senza dubbio alla sparizione delle api principalmente in due modi. Da un lato l’ adozione di monocolture efficientemente diserbate su larghe frazioni di territorio crea dei deserti alimentari in cui le api non riescono a nutrirsi se non per periodi molto brevi. Dall’altro lato è subentrato l’ utilizzo di subdoli insetticidi sistemici, molti dei quali hanno effetti sub-letali le cui cinetiche vengono spietatamente sfruttate dall’industria agrofarmaceutica per contrastarne la messa al bando. Sui neonicotinoidi ed affini sono state scritte milioni di pagine e non c’è bisogno di elaborare ulteriormente.
La soluzione
La soluzione, anzi le soluzioni, a questi problemi non possono che essere molteplici e globali. Molte di queste soluzioni sono già state adottate dagli apicoltori eretici ed ormai anche alcuni apicoltori della dottrina le stanno progressivamente adottando.
- Occorre contrastare lo spargimento di patogeni e parassiti evitando di importare stock senza i dovuti controlli che nel caso delle api sarebbero comunque molto difficili da attuare. Ovvero gli apicoltori dovrebbero utilizzare principalmente materiali reperiti sul territorio. E’ necessaria inoltre una linea di controllo sull’effettiva capacità di un apicoltore di tenere le api in maniera sanitariamente accettabile. Se ad un allevatore di pecore muoiono 20 animali i servizi veterinari un’ occhiatina vanno a darla, e magari chiudono l’ allevamento ed abbattono gli animali restanti. Perché le stesse regole non valgono per le api?
- Con l’aumento delle perdite e quindi della domanda, si è avuto un aumento vertiginoso dei costi dei nuclei. Questo rende gli apicoltori sempre più riluttanti ad eliminare i materiali deboli, infetti e moribondi. Viceversa è necessario cominciare ad applicare una progressiva selezione dei ceppi ed interrompere il ciclo vizioso delle cure chimiche. Questo “dente cariato” non migliorerà di sicuro con il tempo.
- Alcune pratiche apicolturali, che ai vecchi tempi erano perfettamente accettabili, ormai sono obsolete o dannose. Per esempio il miele ha un pH 3-4 e contiene principalmente zuccheri ma anche vitamine, proteine e sali minerali. Lo sciroppo invece contiene solo zucchero ed ha un pH 6.5 il che si traduce in una differenza di acidità di 100-1000 volte perchè il pH è una scala logaritmica in base 10. Da decenni è stato proposto che lo sciroppo indebolisce il sistema immunitario delle api e, detto per inciso, questo concetto è stato verificato anche dalla scienza ufficiale. La costituzione di nutrimenti più salubri per le api non ha mai ricevuto un’ adeguata attenzione e la semplice aggiunta di fonti proteiche deve essere valutata con attenzione sulla base dell’esperienza pratica nonchè alla luce di recentissimi lavori scientifici nel cui dettaglio per brevità non entreremo. Per secoli la sciamatura è stata “selezionata contro” perché tutti vogliono tenersi tutte le api. Tuttavia la sciamatura andrebbe riconsiderata in termini salutistici perché interrompe il ciclo riproduttivo di parassiti e patogeni creando un ambiente più salubre (infatti quasi chiunque riesce a mantenere vive le proprie famiglie durante il primo anno di attività). Inoltre interrompere il ciclo di covata ad agosto per consentire il trattamento antivarroa non è equivalente a lasciar sciamare le famiglie in primavera e le ragioni di questa considerazione sono molteplici, incluso la qualità del cibo reperibile ed i fuchi fertili. Anche il metodo di interruzione della covata ha la sua influenza secondo gli apicoltori eretici che preferiscono di gran lunga l’ ingabbio su favo alla clausura nelle gabbiette. La mancata capacità di una famiglia di farsi una regina a tempo debito è uno dei peggiori difetti in assoluto, ma questo è stato favorito dalla sistematica eliminazione dei ceppi che facevano “troppe” celle reali. Anche la propolizzazione dovrebbe essere riconsiderata. Oggigiorno tutti sappiamo che il propoli ha proprietà antibatteriche ed antivirali: le api lo scoprirono milioni di anni fa. Ciononostante abbiamo selezionato contro la propolizzazione ma poi ci lamentiamo perchè le malattie causate da patogeni flagellano gli alveari. Sicuramente il propoli è una scocciatura ed infatti sono allo studio delle arnie che consentono la propolizzazione facilitando al contempo le normali operazioni sulle famiglie. Diamo un’ occhiata critica alle arnie che vengono usate più comunemente: le Dadant con nido da 10 favi. Queste arnie furono messe a punto per accogliere le famiglie di Apis mellifera ligustica le quali crescevano in proporzioni gargantuesche ai bei tempi quando la varroa non c’ era. Oggi con 1 o 2 blocchi di covata, necessari per contenere la varroa, le arnie Dadant da 10 favi entrano in inverno essendo sottopopolate, invitando tutta una serie di problemi a cui certi allevatori pongono parziale rimedio restringendo le famiglie. Non sarebbe il caso di riconsiderare le Langstroth da 8-10 favi le quali, oltre ad essere più adeguatamente dimensionate, consentono di avere le stesse identiche casse per il nido e per il melario? Un altro fattore che viene raramente sottoposto ad un’ attenta valutazione è l’ uso dei foglietti cerei. Innanzitutto i foglietti cerei vengono prodotti industrialmente a partire da materiali che, se va tutto bene, sono già in partenza contaminati da pesticidi di ogni genere. Se va male, contengono anche le spore del Paenibacillus larvae. I foglietti “biologici”, ammesso e non concesso di riuscire a trovarli, costano un occhio della testa. L’ unica ragione di utilizzarli, dato che costituiscono una frazione minore della cera, è di limitare le celle da fuco. Tuttavia le celle da fuco intrappolano la varroa e si potrebbero sfruttare con un po’ di lavoro in più invece di usare i telaini trappola. In secondo luogo la scarsità di fuchi nel periodo di volo delle regine è un pessimo inconveniente per una serie di ragioni le quali sono state confermate anche dalla scienza ufficiale. Ragioniamo un momento con calma. Le api sanno benissimo che i fuchi mangiano e non lavorano: se nel corso dell’evoluzione hanno accettato di avere un 10% di fuchi avranno pure le loro ragioni! Ecco perché in apicoltura eretica si lascia alle api il compito di costruire i favi che preferiscono, guidando ovviamente la loro costruzione in maniera congruente con i telaini. In teoria bisognerebbe qui parlare anche del concetto di reversione alle celle piccole ma si preferisce sottacere per evitare le infuocate polemiche che le celle piccole si trascinano. Per finire analizziamo con un occhio critico l’Apis mellifera ligustica (l’ape italiana), campione e vanto dell’orgoglio nazional-autarchico. L’ ape italiana ha delle qualità eccezionali ed infatti aveva rimpiazzato una larghissima fetta di altre sottospecie attraverso tutti gli oceani. L’ape italiana ha anche delle caratteristiche che “ai tempi della varroa” non sono in definitiva così vantaggiose. La ligustica non ha tolleranza alla varroa. Inoltre fa fatica ad interrompere la covata in inverno il che era un grande vantaggio nelle zone a clima molto mite in cui era stata selezionata quando la varroa non c’era (ma adesso … c’è). Avere viceversa dei ceppi di api che a fine ottobre entrano in invernamento farebbe un sacco di comodo ad un sacco di apicoltori. Muovere critiche all’ ape italiana equivale all’apostasia, e si rischia il rogo, semplicemente perché l’ apicoltura italiana ufficiale è stata canonizzata dagli apicoltori che operano sulle fasce costiere dalle Cinque Terre al Golfo di Napoli e da Venezia a Chieti. Ma anche Sicilia e Valle D’Aosta e gli Appennini sono Italia e per queste zone ci sono sottospecie di api molto meglio adattate della ligustica. Sicuramente si potrebbe migliorare la ligustica tramite incroci e selezione ma questo si scontra da un lato con debolezza cronica della ricerca in apicoltura e dall’altro con l’idea radicata di mantenere i materiali “in purezza”. Quest’ultima posizione è difficile da capire alla luce di quanto l’ uomo ha perseguito nel corso dei millenni durante i quali è diventato agricoltore stanziale: il miglioramento genetico. Sfortunatamente quasi nessun produttore fa più il miglioramento genetico delle api, che è lasciato alla buona volontà di un manipolo di microbreeders sparsi per il mondo. Anche le istituzioni che fanno un serio miglioramento genetico si contano sulle dita di una mano in tutto il mondo. I criteri di selezione dovrebbero inoltre tenere conto delle nuove necessità e dei nuovi orientamenti. Non si può continuare a selezionare per alta produzione di miele, scarsa sciamatura, assenza di propolizzazione, docilità estrema, purezza esasperata e tutti quei caratteri che fanno comodo agli apicoltori ma sono di detrimento alle api, quando il problema principale è che le api muoiono. Occorre selezionare per la fitness.
Fig. 2. Visione di un favo di api ligustica x caucasica reincrociate a ligustica in segregazione.
Molte delle opinioni qui espresse sono state verificate dalla scienza ufficiale, altre sono semplicemente il frutto di osservazioni empiriche. In conclusione l’ apicoltura eretica non ha inventato niente di realmente nuovo perchè si basa semplicemente su un modo più biologico e meno avido di gestire gli alveari.
Massimo Maddaloni, Department of Infectious Diseases and Pathology, College of Veterinary Medicine University of Florida – Gainesville, FL, USA.
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