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di Nicolò Passeri e Donato Ferrucci

Introduzione

Nel tempo, l’idea di “qualità alimentare” è stata sempre più definita attraverso assunti complementari come la comparabilità, la gradualità, la scalarità. Elementi che, invece di arricchire l’idea ed i suoi principi, si sono concentrati sugli strumenti di misurazione.
Questa evoluzione verso la misurabilità ha distorto il significato di “qualità” che è divenuto una sorta di assunto matematico, ovvero, il possesso di un certo numero di caratteristiche, tali da rappresentare un gradino di una ipotetica scala graduata e consentire la definizione della classe qualitativa, la comparazione, e la progressiva ascesa verso la piramide dell’eccellenza.
Questa definizione meccanicistica e riduzionista in cui, alla perfetta definizione dei criteri di analisi, corrisponde una prestazione, è realistica solo per i parametri misurabili, che però rappresentano solo una parte delle caratteristiche di un prodotto. Infatti, nella definizione della qualità alimentare, si è assistito alla comparsa progressiva di parametri non misurabili e ben più complessi, di natura spesso immateriale ed evocativa.
Si tratta di caratteristiche legate a prestazioni relazionali (contratti), rispetto dell’ambiente (impatto delle scelte produttive), fino al rispetto di elementi a carattere religioso (kosher). Questi esempi mostrano come per alimenti, prodotti agricoli e cibo, non basti il concetto di misura per la definizione di qualità alimentare.
Alla misurazione con una scala graduata e alla definizione dei limiti (caratteri di tipo semplice – misurabili), si è affiancata quindi la definizione di requisiti di difficile misurabilità in cui la “compliance” (conformità) è diventata invece il rispetto di particolari condizioni (es. presenza o meno di un elemento o condizioni tali da renderne non necessaria la presenza). Per questi ultimi, si è tentato di definire la misurabilità come soglia, che coincide con il rispetto di un numero stabilito di tali assunti (caratteri tipo complesso – non misurabili, ma misurati come soglia).
Una definizione di questo tipo, è estremamente fragile, perché presume come variabile indifferente, la soggettività delle scelte qualitative. D’altro canto, però, la definizione di una soglia qualitativa deve essere un complesso di scelte che non può fermarsi alla sola approssimazione numerica.
Queste soglie mostrano solo trend e mode, che ieri spiegavano come il consenso fosse votato alla sicurezza (qualità intesa come sicurezza), poi al benessere (qualità intesa come benessere), oggi all’etica (qualità intesa come servizio sociale, fondato su scelte personali in grado di impattare positivamente su terzi).
Questo contributo mostrerà come al concetto di qualità alimentare di stampo meccanicistico, si affianca anche una prospettiva che osserva la rilevanza dell’identità dei soggetti coinvolti e, come il concetto stesso di qualità abbia a che fare proprio con il complesso dei comportamenti individuali.
Al termine della trattazione, apparirà forse più chiaro il titolo del contributo, che molto ha a che fare con l’imponderabile, nel caso di scelte qualitative legato alla soggettività, in particolare per quanto concerne la sfera dei prodotti alimentari.

La qualità del settore agro alimentare: uno spaccato

Quando un consumatore opera delle scelte su un alimento rivolge la sua attenzione al di là del solo fabbisogno metabolico ed osserva caratteristiche ambientali, caratteristiche etiche, valori funzionali, attestazioni di specificità. Queste caratteristiche di tipo “dummy” (c’è/non c’è), diventano determinanti nella costruzione della scelta, seppur condizioni complesse da verificare, aleatorie in termini di comunicazione, e particolarmente articolate da costruire nell’immaginario del consumo.
Quando un produttore si rivolge al mercato guarda esattamente alle medesime caratteristiche e, in ottica speculativa cerca, proprio su queste, di costruire la propria identità agli occhi del consumo.

Il punto al quale si è giunti appare sorprendente:

  1. Si riconosce un ruolo prioritario all’agricoltore delegato alla produzione (soddisfazione) del fabbisogno metabolico di un individuo, ovvero delegato alla produzione di quella materia che diventa parte dell’individuo dopo il consumo (difficile individuare un rapporto più intimo e frequente con i beni di consumo).
  2. Nel contempo si osserva però che l’abitudine al consumo, non vede nell’agricoltore l’interlocutore da consultare per le scelte, delegate invece ai luoghi di acquisto (scaffali) ed attraverso l’attrattiva di prodotto (etichetta e confezione).

Il paradosso del tonno

A titolo esemplificativo di questa singolare condizione, agli occhi del consumo, un prodotto come il tonno diventa iconico perché esiste una distanza quasi planetaria tra fase di produzione e fase di consumo.
Tra gli scaffali, lontano da qualsivoglia fascino estetico, sta il tonno, inscatolato, incartato e conservato in latta o vetro.
Filetto o pasta, naturale o in olio, “pinne gialle”, ma quanti hanno visto un tonno a pinne gialle e saprebbero riconoscerlo? La gamma delle suggestioni fornisce un panorama ricco di caratteristiche materiali che ispirano leggerezza (nutrizionale), prelibatezza (sensoriale) e ricercatezza (sociale). A queste caratteristiche misurabili, reali, sperimentabili solo dopo apertura e consumo, se ne aggiungono altre che diventano complementari ed a volte imprescindibili “pescato a canna” o da “pesca sostenibile”, caratteristiche materiali nel processo ma immateriali nel contesto (che gusto ha la “sostenibilità”?) e di difficile collocazione. Elementi che non guardano al prodotto ma alla sua fase produttiva, claims market sounding, che lasciano trasparire l’interesse del consumo verso “altro” che non può essere misurato, ma diventa potenzialmente distintivo agli occhi di chi acquista.
In uno scaffale, insieme ad altre centinaia di potenziali scelte di tonno risuona “il mio tonno è differente” e, come un’eco il “perché?”, del consumatore. La risposta è in “qualcosa” che lo distingue, qualcosa che ha o suggerisce valore, e ne determina la scelta/acquisto.
La scelta si può, in questo caso, spiegare con la presenza di determinate caratteristiche capaci di orientare l’interesse nell’atto dell’acquisto che, in sequenza concatenate, portano alla decisione:

  1. Quando si deve comprare il tonno, si acquista il tonno. Quale tonno? Il tonno, purché sia tonno (caratteristiche ricerca).
  2. Non tutto il tonno per caratteristiche misurabili, reali, sperimentabili è però uguale; ai palati di chi acquista, si manifestano le preferenze (es. olio di semi vs olio d’oliva), cottura delle carni, struttura delle carni, consistenza al palato. Ciascun acquirente orienta le sue scelte in funzione del suo desiderio, ma se non sperimenta non potrà mai sapere ed in conseguenza mai scegliere (caratteristiche esperienza).
  3. Appurate le preferenze date dall’esperienza, il simbolo (marchio) diventa sempre più determinante all’atto dell’acquisto (aspetto fiduciale). Ci si troverà a scegliere il tonno, non più perché è solo tonno, e non solo in funzione delle carni, ma associando all’atto d’acquisto una componente del tutto disgiunta dalla fase alimentare e collegata alla fase di condizionamento (“lavorato in Italia”) o di processo/prodotto (“da pesca sostenibile”), che l’acquirente non può misurare, né assaggiare e per questo si deve affidare (caratteristiche fiducia).

Questo esempio riporta l’attenzione verso le fasi a monte e dimostra come le caratteristiche esperienza/fiducia assumano un valore determinante, proprio perché associate alle fasi di produzione e investano il prodotto e la percezione d’acquisto, siano esse materiali o immateriali.
Di conseguenza, in materia di distinguibilità, si osserva che, al crescere della corrispondenza tra promessa di caratteristica e presenza della caratteristica, dovrebbe corrispondere in analogia un gradiente qualitativo di garanzia. Gradiente a volte misurabile secondo una scala numerica, ma sempre più spesso qualitativa, basata su requisiti (si/no) di perimetro indefinito.
Non è quindi possibile creare scale e misure deterministiche per qualsiasi declinazione della qualità.
A corollario del “paradosso del tonno”, si vuole portare una ulteriore riflessione: per quasi tutti i prodotti alimentari l’origine del prodotto (caratteristica fiducia) è fattore determinante. Nonostante sia riportata in etichetta la zona di pesca, quanti la ricercano e sulla base di questa maturano una scelta (il tonno, vista la ricca varietà di specie, si pesca nel Mediterraneo, nell’Atlantico, nel Pacifico)? Quanti invece la associano alla zona di lavorazione, “Lavorato in Italia” ? È la fase produttiva (di cattura) o la fase alimentare che interessa ciascun consumatore per la definizione del gradiente qualitativo, in particolare per l’origine?

Misurare e definire il limite della qualità alimentare

In matematica, il concetto di limite si utilizza in tutti i rami dell’analisi, ad esempio per definire la continuità, la derivazione e l’integrazione. Il limite è una soglia, la frontiera che annuncia qualcosa; è il valore minimo che continua ad essere efficace o il punto estremo prima del quale ci si deve fermare (dal lat. solea, soglia, limite oppure solum, suolo).
La costruzione delle soglie ha quindi a che fare con quel punto di riferimento oltre il quale qualcosa accade; ma se nell’antichità questo limite era impreciso, labile e spesso legato al mondo dei sensi, quindi approssimativo, attraverso la maggior definizione degli strumenti che operano una misura, si passa dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (Koyrè, 1968) (1)
Anche in ambito di qualità dei prodotti alimentari ne deriva che la definizione delle soglie passa dal sentire (percepire), al misurare. Nel comparto si assiste proprio a questa evoluzione: la qualità alimentare si confonde con la misurabilità di caratteristiche che, tanto più possedute. permettono di superare ipotetiche soglie. Tanto più accurati diventano gli strumenti, tanto più accurata diventa la rilevazione della caratteristica. Il grado zuccherino di un frutto permette la commercializzazione presso i retailer e se non si supera una certa soglia, il retailer lo considererà non conforme alle regole definite.
Il complesso del gusto, però, non passa forse attraverso il complesso equilibrio di dolce, amaro, salato, aspro ? E come si misura questa complessa commistione? La percezione al consumo può davvero passare “solo” attraverso la misurabilità ed il dettaglio di un parametro misurabile ?
Il concetto di qualità alimentare, nella sua evoluzione, delega a valori misurati il concetto di limite, di soglia, e poi, insoddisfatto, aggiunge il concetto di tolleranza, per arrivare a confondere l’accuratezza dello strumento con il principio che ha ispirato quella definizione di qualità: ecco il proliferare di strumenti di misura, sulla base dei quali discriminare e costruire un’insiemistica di prodotti “oltre il limite” e “sotto il limite”.
Ma la qualità alimentare, in termini definitori, non ha a che fare con il concetto di limite matematico; la qualità alimentare trova il suo fondamento su principi di sicurezza dei prodotti alimentari e di corretta trasmissione delle informazioni (Reg. UE 02/178; Reg. UE 11/1169, Reg, UE 04/852).
In altri termini, il concetto di limite nella qualità alimentare, riconosciuto e condiviso, riguarda solo l’accesso al mercato, ovvero l’applicazione di principi di ingresso. Sotto l’applicazione dei principi si è al di fuori della legalità, sotto un livello accettabile di qualità ed in conseguenza fuori dal mercato. Solo a partire dall’applicazione di questi principi possono essere definite delle soglie.

Oltre i limiti: le soglie della qualità

Le scale graduate (le classifiche) dettano la confrontabilità dei prodotti alimentari, ma chi definisce e come si definiscono queste soglie? Una delle modalità più frequenti con cui si stabiliscono delle soglie riguarda la ricerca di un numero esemplificativo, superato o al di sotto del quale si realizza la conformità.
L’elemento misurato dovrebbe ingenerare un valore agli occhi del consumatore e può quindi diventare una soglia “da oltre 120 giorni senza antibiotici”, “con lo 0,01% di grassi”; questa soglia definisce un impegno che definisce la specificità/distinzione del prodotto.
La trappola è considerare il valore numerico, tanto più definito e tanto meglio, come spiegazione del concetto di qualità, perdendo di vista il principio di ispirazione.
Innamorarsi del numero, troppo spesso, non permette di comprendere il principio: strumenti sensibili, forniscono numeri accurati, che fanno intendere precisione. È davvero l’accuratezza dello strumento di misura o la gradualità delle rilevazioni a definire le soglie della qualità? Spesso il valore numerico viene confuso con una certezza. In conseguenza, l’inseguimento delle soglie qualitative ha a che fare con l’aumento della sensibilità degli strumenti o con lo spasmodico moto di inseguimento verso/oltre/sotto un numero, senza interrogarsi sull’opportunità della misurazione e sul significato che ha ispirato la misurazione; ben poco significato in questo senso assumono inoltre i fattori di incertezza di misurazione e rumore, al cospetto della “soglia”.
Parimenti, si è detto che la qualità alimentare può essere intrepretata come conformità a caratteristiche immisurabili e si attua attraverso il conteggio di requisiti presenti. Che il gruppo di requisiti sia etico, religioso, sanitario è determinante per il raggiungimento di un numero minimo di requisiti conformi, che definisce la soglia: oltre soglia numerica, si è raggiunta la qualità.
In questo caso è la numerosità degli adempimenti conformi a determinare una soglia che ingenera la conformità a qualcosa di immisurabile. È questo il caso, ad esempio, di “da filiere sostenibili” o “prodotto tracciato”.
Se però si spoglia questo costrutto teorico degli strumenti di misurazione (dei numeri), allora si torna ai principi: non conta il risultato in termini numerici ma il significato delle misurazioni, ovvero quel senso di appagamento che guarda lo sforzo profuso per raggiungere il traguardo (la soglia): ciò che rimane agli occhi del consumo è il titolo ottenuto (la menzione), e non la votazione (il numero). Si guarda, giustamente, al vessillo (marchio) e non alla numerosità di verifiche.

Il valore e la qualità

Il risultato di questo processo di misurazione e definizione è che spesso si confonde l’elemento di causa e quello di effetto e si distorce la costruzione del valore: nelle relazioni sul mercato, dal lato della produzione, si cerca di proporre un prodotto che si distingua per quel complesso di significati che riesce a trasmettere [qualità erogata]; tale sforzo profuso dovrebbe attrarre chi è alla ricerca di soddisfazione, ovvero manifesta un bisogno, come i consumatori che sulla base delle proprie aspettative scelgono [qualità attesa].
Le soglie numeriche, di per sé, non rappresentano alcun significato, sono invece i titoli (le menzioni) che si aggiungono al prodotto che costruiscono il valore agli occhi del consumo.
Sui prodotti alimentari, la sempre crescente ricerca del risultato numerico lascia passare il concetto che la qualità alimentare sia un gradiente competitivo (misurato), anziché la valutazione delle alternative. È come se la misurazione del parametro offuscasse il principio che ne ha generato l’interesse.
La qualità alimentare agli occhi di chi consuma è una valutazione olistica di qualcosa che va oltre un numero, ed è un’intima messa a fuoco dell’oggetto del desiderio (le alternative mediate con i bisogni e le possibilità).
Chi sceglie matura le proprie opzioni come confronto e ciò che è scelto, incarna la migliore tra le alternative, mediata dalle possibilità (anche economiche).
Definire il valore ed il rapporto tra aspettative e disponibilità economiche è però una valutazione del tutto soggettiva, in cui ciascun consumatore incarna la misura del valore, ovvero della qualità attesa.
Definire una soglia qualitativa per i prodotti alimentari basata su parametri numerici, rappresenta quindi solo un esercizio, che non può e non deve diventare “significato”.
I consumatori sono alla ricerca di valori, e non di numeri, è il sistema di fiducia costruito nell’immaginario del consumatore che determina le scelte, conseguenza di valori ed idee. È quindi la fiducia nei significati delle menzioni associate a prodotti e servizi che sono oggetto della scelta, e rappresentano la struttura del sistema fiduciale tra menzione, segno e significato. Nel consumatore si manifesta adesione al valore in conseguenza della fiducia nella correlazione al prodotto.
In altre parole, l’oggetto di attenzione del consumatore è l’esigenza di garanzie su princìpi, che si trasforma in valore per raggiungere uno specifico scopo.
La qualità è la soddisfazione delle aspettative, quelle soggettive, quelle intime ed uniche di ciascun consumatore, di improbabile perimetrazione numerica.
La definizione qualitativa di un prodotto agroalimentare viene spesso associata con la valutazione algebrica delle risultanze numeriche della sua composizione o dei limiti associati ad una misurazione, e questo avviene soprattutto nel settore dei sistemi di gestione qualità, dimenticando che qualità deve rimanere un concetto legato a chi la qualità la fruisce (i consumatori). Si assiste alla presenza di una qualità oggettiva che non crede nell’area della soggettività, universo del consumatore, dove evocazioni e sensazioni sono il vero cardine della scelta. Questo denota la totale mancanza di sensibilità di un sistema numerico e non umanistico, quando la scelta è di fatto orientata da principi ispiratori di scopi etici. Resta fermo che, la qualità, nella definizione di parametri merceologici e funzionale allo scambio commerciale può, ragionevolmente, trovare motivo e giustificazione. Non deve però ritenere di essere la sola ed unica declinazione corretta del concetto.
Le soglie delle qualità, ora non più al singolare ma possibili interpretazioni di aspettative, esprimono l’evidenza che il sistema di fiducia e comunicazione ha funzionato: la rispondenza tra messaggi (principi) ed evidenze riconosciute (segni/menzioni) nell’esperienza di ciascun consumatore. In sintesi, non è concepibile una qualità, destinata al consumatore, che non risponda alle esigenze ed alla capacità di comprensione e percezione dell’utente.
Il superamento del limite, il raggiungimento dello scopo non bastano. Occorre che il messaggio, menzione o segno, che determina la qualità raggiunga il destinatario, altrimenti non è qualità. La qualità si manifesta quando il consumatore capisce il messaggio, lo scopo, i principi.
Confondere la qualità con l’accuratezza delle misurazioni, equivale a cadere nella trappola dell’irrangiungibile infinto (eternità). Così la qualità tende all’infinito senza mai raggiungere l’obiettivo delle aspettative etiche del consumatore, diventando sterile esercizio tecnico fine a sé stesso e immemore del motivo della sua stessa esistenza.
L’esigenza di accuratezza porta solo alla frustrazione, sarà sempre possibile arrivare alla definizione di un numero sempre più piccolo, o più grande, che tende all’infinito: si miglioreranno gli strumenti ma non ci sarà nessuna evoluzione sui principi, che saldi, non ricevono le scosse della tecnologia e resteranno incompresi dal consumatore, con conseguente allontanamento.
Perseverare in questa spasmodica ricerca del numero e della precisione, in particolar modo in ambito di qualità alimentare, fa perdere di vista proprio i princìpi, fino a ritrovarsi sulla “Soglia dell’eternità” (Olio su tela, Vincent Van Gogh 1890) che diventa la “Soglia dell’inutilità”. Impotenti dopo tanta ricerca, attoniti e frustrati, senza ricordare il motivo della misura e il significato dei numeri, senza vedere le soglie della qualità e la gioia del miglioramento.

Note:

  • Koyré A., 1968, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi Torino.

Spunto di riflessione: in linguistica le soglie che definiscono il passaggio da una varietà di lingua a un’altra sono labili e imprecise, al punto che l’insieme delle varietà di un repertorio linguistico viene definito ‘continuum con addensamenti’. Gli addensamenti sono i nuclei centrali delle varietà in cui si manifestano tutti gli elementi più caratteristici di essa.

Nicolò Passeri, Dottore Agronomo, libero professionista. Dottore di ricerca in “Economia e Territorio” presso l’Università degli Studi della Tuscia. Consulente per la certificazione prodotti biologici e analisi tecnico economiche dei processi produttivi. Collabora con l’Università degli Studi della Tuscia a progetti di ricerca su studi relativi alla valutazione della sostenibilità ambientale dei processi produttivi agricoli.

Donato Ferrucci (Torino 1964), Docente sistemi qualità e certificazione dei prodotti alimentari ITS Agroalimentare Roma/Viterbo. Agronomo, pubblicista, e Master in Diritto Alimentare. Responsabile Bioagricert srl per l’area Lazio/Abruzzo/Umbria/Marche. Per info: Google “Donato Ferrucci Agronomo”.

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