di Cesare Maria Figini
Partendo dagli studi sulla Pet-Therapy, una tesi di laurea in psicologia esplora i possibili legami tra la pratica dell’apicoltura e le ricadute in termini di benessere per l’uomo.
La Pet-Therapy (PT) – conosciuta anche con il nome di Animal – Assisted Therapy – definisce un insieme complesso di utilizzi del rapporto uomo – animale in campo sia medico che psicologico.
La sua valenza terapeutica intende sottolinearne la funzione di “co-terapia dolce” a supporto ed integrazione delle terapie normalmente effettuate da altri professionisti. Per tale ragione, può essere impiegata con pazienti affetti da vere e proprie patologie o disturbi ma si rivolge anche a persone che manifestano più generiche situazioni di disagio.
Dagli anni ’70 in poi il mondo della PT ha così visto una progressiva espansione attraverso l’incremento delle tipologie di destinatari: bambini con gravi difficoltà di linguaggio e relazione, adulti con problematiche psicologiche/psichiatriche, soggetti affetti da disabilità fisiche e psichiche, anziani, tossicodipendenti, detenuti e soggetti ricoverati in manicomi.
L’esperienza di PT è prima di tutto e soprattutto una esperienza relazionale e come tale una esperienza imprescindibilmente emozionale. Il punto chiave è questo: da tempo è noto come le relazioni sociali siano di per sé efficaci nel contrastare agenti di stress ma – confermano le ricerche degli ultimi anni – questo assunto pare mantenere la sua validità anche nel caso di relazioni tra specie diverse.
La riflessione fin qui svolta ci porta allora ad introdurre un interrogativo forse ancora poco presente all’interno dell’intero ambito apidologico: che contributi può
apportare all’essere umano il fatto stesso di relazionarsi con un essere vivente dotato di così particolari caratteristiche come l’ape?
Per dare risposta a questa domanda può venirci incontro il corpus di riflessione teorica e di ricerca di un particolare paradigma di lettura del rapporto tra l’uomo e
l’animale: la zooantropologia.
Secondo tale impostazione il beneficio che si otterrebbe in generale dalle situazioni di relazione uomo-animale nasce da una precisa dimensione relazionale, da specifiche valenze emozionali, cognitive, comunicative che vanno riferite alla diversità stessa dell’animale ed alla intrinseca dimensione di relazionalità che questo comporta.
Valore chiave in questa teorizzazione assume il concetto di «referenza» definibile come il valore assunto da un’entità in termini di capacità di essere interlocutore. In altre parole, la «referenza» è il valore che un soggetto, qualunque esso sia, apporta attraverso la relazione.
Ora l’obiettivo diviene quindi quello di comprendere il modo specifico in cui agisce lo stare in relazione con un così particolare soggetto come l’alveare, per tentare
in ultima analisi di comprendere quella che – riprendendo la riflessione precedente – potremo definire la particolare «referenza» del soggetto alveare.
Partiamo dall’osservare come l’essere umano e le api siano in effetti realmente in grado di comunicare fra loro tramite le particolari modalità relazionali che li vedono reciprocamente coinvolti. Ritengo allora qui utile tentare una sorta di sintesi dell’ipotetico “alfabeto” che rende possibile questa particolare forma di comunicazione tra specie differenti.
Una premessa è d’obbligo: la riflessione sui temi qui proposti è in sostanza ancora agli albori e, pertanto, ricca di propositi d’indagine e di spunti per la ricerca più che di acquisizioni con carattere di definitezza. Ad ogni modo, si tenterà una sintetica presentazione organica delle conoscenze esistenti seguendo il modello dei canali comunicativi:
Comunicazione olfattiva:
Da tempo è noto il sofisticatissimo impiego dei messaggi di natura olfattiva su base feromonale posto a regolazione di moltissime funzioni interne alla vita dell’alveare (al momento si conoscono 22 molecole diverse adoperate con questa funzione). Di più recente acquisizione è invece la comprensione di come spesso anche tra specie diverse si possa attivare un interscambio di molecole feromoniche – definite in questo caso “segnali allelochimici” – in grado molto spesso di mantenere un effetto simile se non addirittura equipollente anche su bersagli eterospecifici. Tale processo potrebbe essere posto in correlazione con la ben nota insorgenza di comportamenti di aumento dell’aggressività da parte delle api in risposta alla condizione interiore dell’apicoltore: stati di ansia e/o condizioni di stress esperiti da quest’ultimo potrebbero infatti essere percepiti, attraverso il canale olfattivo, dallo sciame determinandone una reazione in termini di modificazione della risposta di allerta con abbassamento della soglia di inizio dei comportamenti di attacco e difesa. Per quanto riguarda un ipotetico percorso inverso – risposta umana in termini di modificazione inconsapevole del comportamento o dei livelli di attivazione emozionale sulla base di trasmissione di messaggi allelochimici da parte dello
sciame – in relazione al mondo delle api il campo d’indagine è ancora interamente da esplorare mentre starebbe trovando qualche timida conferma in relazione ad altre specie animali.
Comunicazione visiva
La percezione visiva delle api è da tempo oggetto di studio scientifico. Nota è la loro capacità di percepire il mondo attraverso una banda cromatica più spostata – rispetto a quella dell’uomo – verso la fascia dell’ultravioletto così come hanno destato meraviglia i numerosi esperimenti volti a dimostrare la raffinata capacità dell’insetto di riconoscere e discriminare anche tra figure complesse. Di più recente acquisizione è la comprensione della sua elevata capacità di percepire la componente cinetica degli oggetti posti nel suo campo visivo, aspetto che – ricollegandosi al tema della risposta aggressiva sopra introdotto – riporta alla questione dell’interazione con l’uomo: l’adozione di movimenti bruschi e nervosi in prossimità dell’alveare genera un aumento dello stato di allerta immediatamente riscontrabile; viceversa, l’adozione di movimenti lenti ed essenziali, appare tra le prime raccomandazioni fornite all’apicoltore neofito.
Sul fronte del percorso che dal comportamento dell’ape porta a quello dell’uomo, propongo un’interessante prospettiva di ricerca che troverebbe un parallelo in
precedenti esperienze di studio: sulla scorta dei risultati ottenuti da Katcher e Beck (1983) che dimostravano sperimentalmente come la sola vista di pesci in un
acquario abbia la capacità di determinare un’azione ansiolitica ed ipotensiva, potrebbe forse non risultare del tutto azzardato il tentativo di verificare l’esistenza di
un analogo effetto dovuto all’osservazione della condizione di “geometrica quiete” che regna all’interno dell’alveare.
Comunicazione uditiva
Conosciamo davvero pochissimo sulla capacità delle api di percepire suoni anche perché, fino a non molti anni fa, si è erroneamente ritenuto che le api fossero sorde. Oggi invece sappiamo che le antenne, oltre che essere sede di recettori sensoriali del gusto, dell’olfatto e del tatto, lo sono anche del suono. La comprensione di quest’ultimo processo percettivo è però tuttora oggetto di analisi.
Di estremo interesse risulta essere anche un parallelo sforzo d’indagine che è orientato a meglio comprendere che cosa siano in grado di veicolare nella mente
dell’uomo i suoni prodotti dalle api. Tale interrogativo è sufficientemente affascinante e stimolante da giustificare un progetto di ricerca che ha preso il via nel
corso del 2010 presso l’Università dell’Oklahoma (USA) sotto la direzione di Charles Abramson, Professore di Psicologia e da anni ricercatore nel campo
dell’apidologia. L’obiettivo da cui prende avvio tale progetto è quello di individuare se esistano correlazioni osservabili tra l’ascolto di un repertorio campionato di suoni emessi dalle api (diverse qualità e “sfumature” di ronzii, generalmente associate a differenti “stati d’animo” dell’alveare) e la modulazione delle onde cerebrali di individui sottoposti ad indagine (apicoltori versus soggetti di controllo). L’ipotesi di fondo è quella per cui la riferita condizione di benessere e rilassatezza descritta dagli apicoltori in presenza di uno sciame che si comporta in modo non aggressivo possa essere veicolata – in misura ancora da determinare – anche attraverso la componente sonora che accompagna tale esperienza.
Comunicazione tattile
Si tratta indubbiamente del canale in assoluto più sacrificato nell’interazione tra l’uomo e l’ape. Infatti, la necessità di difendersi dalle sempre possibili punture rende indispensabile l’impiego di pesanti sistemi di protezione appositamente concepiti per evitare il contatto diretto tra la pelle e l’insetto. Sono peraltro ben note le esperienze di apicoltori esperti che – resi sicuri da anni di pratica ed immunizzatisi dal rischio di reazioni allergiche al veleno d’ape – si accostano all’alveare anche del tutto privi di protezione proprio perché, spiegano, attirati dalla speciale sensazione del contatto delle api con il proprio corpo. La componente benefica della dimensione tattile nel contatto con il “Pet” è da molti anni oggetto di studio da parte della ricerca sulla Pet-Therapy. Ben consapevole della non perfetta sovrapponibilità tra tali situazioni e quelle esperite in apicoltura, restano comunque – a mio modo di vedere – aperti alcuni potenziali ed interessanti
interrogativi.
Il punto conclusivo è ora il seguente: mia convinzione è che la pratica dell’apicoltura, con l’insieme di schemi relazionali altamente specifici che chiama in causa, sia un’attività in grado di proporre a chi la pratica un’interessante palestra per l’acquisizione – o eventualmente la ri-acquisizione – di competenze distribuite su più livelli (comunicativo, emozionale, cognitivo, senso-motorio, ecc.) Lo sviluppo di efficacia personale cui qui mi riferisco origina, nello specifico,
dall’acquisizione di maggior padronanza di sé attraverso una pratica che stimola l’uso di competenze volte al saper leggere una particolarissima forma di relazione, al saper stare in essa ed al saperla orientare nella direzione desiderata.
Questi ultimi aspetti concludono la nostra riflessione riportandoci verso il tema del benessere umano. Seguendo il pensiero dello psicologo canadese Albert Bandura che nella teorizzazione del concetto di “agenticità umana” andava a definire uno degli elementi centrali nello sviluppo del senso di crescita individuale, vogliamo qui individuare nella situazione stessa di relazione uomo-animale la valenza di benessere di tutte le esperienze in cui l’uomo riscopre (o amplia) la sua capacità di essere “agente relazionale” con un altro-da-sé. Un plusvalore che a questo punto – sebbene con le opportune distinzioni – può essere esteso fino a ricomprendere qualsiasi tipologia di interazione uomo-animale e, tra queste, anche la non certo ovvia e tipica realtà dell’apicoltura.
Cesare Maria Figini, assistente sociale di professione, affronta gli studi in Psicologia come seconda laurea e nel tempo libero si diletta di apicoltura. In questa tesi tenta di trovare un punto di sintesi tra queste due passioni personali.
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