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di C. Maurizio Scotti

Mai come negli ultimi anni il mondo allevatoriale italiano si trova sotto attacco: disastrose ed inspiegabili frodi alimentari all’origine, limitazioni all’export, prezzi alla produzione drasticamente minimi, filiere lunghe e che si incanalano in industrie agroalimentari ormai in mani estere, concorrenza intra ed extra Ue senza fronzoli, sono solo la parte più evidente di un insieme di cause che penalizzano il settore economico “migliore” del Made in Italy, quello “mangiabile” a 360 gradi.

In questi giorni stanno venendo alla luce fatti di una gravità assoluta che riguardano la produzione di latte: alcune partite finite nei caseifici sono risultate contaminate da sostanze chimiche che, in base alle normative vigenti, non ne consentono l’uso alimentare. Invece, quantità industriali di quel latte contaminato sarebbe servito addirittura per produrre il pregiatissimo Grana Padano. Il danno mediatico sulla commercializzazione di prodotti lattiero caseari è stato da subito enorme, quello al settore zootecnico è incalcolabile.

Con 3,8 miliardi di euro di export e 14,9 miliardi di euro di consumi interni, la produzione casearia italiana è una delle voci principali del Pil (supera per fatturato quello di tutto il sistema bancario, di cui purtroppo è debitrice); conta produzioni “galattiche” come Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Trentin Grana, Provolone, Fontina, Gorgonzola, Mozzarella, Asiago, Toma, Taleggio e Quartirolo Lombardo, senza escludere burro, yogurt, primosale e formaggi freschi quali la Crescenza. Prodotti che in giro per il mondo non ha nessuno, nonostante le imitazioni, le approssimazioni e le acquisizioni. Persino aziende multinazionali del calibro di Lactalis per produrre “eccellenze” ha acquisito marchi italiani e stabilimenti italiani in cui si lavora latte italiano! Eppure esiste un certo numero di deficienti che manca di interesse proprio prima ancora che nazionale.

Galbani Corteleona
Stabilimento Galbani (Gruppo Lactalis Italia) di Corteolona (Pavia)

Sono allevatori senza scrupoli, che con un ribrezzo nauseante riusciamo ad indicare con la parola “allevatori”, a cui sfuggono le primordiali trinomie del mondo agricolo: ambiente, genuinità e salubrità. Il tutto che si riduce alla “conservazione” di un bene comune ampio e naturale, delle tradizioni e delle loro applicazioni al mondo alimentare, unica soluzione al nutrimento umano. Altre non esistono.

Ma chi sono coloro a cui giova rovinare un simile patrimonio di “energia pulita e rigenerabile” che va sotto il nome di “alimentazione”? Forse sono gli affiliati mentali dei “profittatori”, degli speculatori senza scrupoli, che vanno all’immediata ricerca dell’interesse, fregandosi delle cose che verranno e delle cause che si andranno a generare. Simili contesti non sono nuovi: li troviamo nel settore petrolifero, in quello aurifero, nella profilerazione del commercio delle armi, nel dominio geolopolitico, per non entrare nel contesto dei listini azionari. Certo, a tanti parrebbe impossibile che in un settore agricolo, per luoghi comuni ritenuto “primitivo”, sia presente una “quinta colonna” in grado di danneggiare gli interessi comuni soffiando sul fuoco delle indecenze agendo dall’interno, come se nulla fosse e senza che un calderone inutile e farraginoso, come l’associazione Italiana Allevatori (AIA) sia in grado di intervenire, chiedendo verifiche, ponendo paletti e contromisure adeguate (compresi efficienti controlli) come ogni ragione superiore vorrebbe esistenti. Questo è un discorso lungo su cui ritorneremo più avanti, perché aggiungere danni ai danni e polemiche alle polemiche, oggi è più insensato che ragionevolmente utile.

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