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Mangiare in Italia è sempre meno Made in Italy

Succede anche perché “i nostri” ristoratori pretendono di guadagnare troppo

di C.Maurizio Scotti

Food: viaggia per la maggiore il “fast” ed il “full” targato estero, anche perché sul “slow” nazionale ci sono ricarichi da capogiro.

C’è la decantata catena di Oscar Farinetti (Eataly), quella legata ai marchi della carne del Gruppo Cremonini (Roadhouse su tutti) e ci sono almeno centomila trattorie più o meno storiche, che offrono pasti “slow” a prezzi abbordabili. L’Italia, a tutto tondo, appare come il luogo della bella tavola e del buon mangiare per tutti i gusti e tutte le tasche, cominciando dal consumo quotidiano. Ma non è così.
Oltre alle condizioni di richiamo turistico estero, basterebbe annotare che Mc Donald’s, Sushi food e Kebab store si prendono una vasta fetta del consumo alimentare fuori casa delle famiglie italiane (circa il 25% su base mensile). Qui, solo il 15% della materia prima servita ha origine italiana. Poi ci sono paninoteche, pizzerie e piadinerie gestite in frachising da società estere (le americane Wall Mart e Palmolive, la svizzera Nestlè e le tedesche Bayernland e Deustcheliebe – il 90% dei würstel e hot dog commercializzati nel Belpaese e il 40% dello speck venduto in Europa, oltre al 15% del latte a lunga conservazione che arriva ogni giorno in Italia), che vanno per la maggiore a che a Roma, Venezia, Firenze, Milano, Genova, Napoli, Torino, Verona, Padova e Trieste, ovvero le dieci città italiane a più forte richiamo turistico, diventano il riferimento del “mordi e fuggi”. Quindi ci sono i Take&Way (soprattutto targati market Carrefour 24h), utili in ogni modo per i soggiornanti B&B o solo alloggio, che fanno capo al 10% statistico. Si passa poi allo “speed food” o “street food”, panini al chiosco, bar e self service tout-suite, che al Nord giocano un ruolo preminente (35% del mercato, il cosiddetto cibo da strada). Nel panorama del consumo alimentare medio mensile fuori casa delle famiglie italiane, resta solo un 30% da accreditare al nugolo di locali in cui consumare la cucina di casa nostra a tutto tondo, percentuale da condividere tra ristò tradizionali, ristoranti di richiamo, luoghi tipici e rinomati, dove in vero ben il 92% della materia prima servita e indigena e magari anche a Km 0.

Ma quel è il motivo principale di un simile dissuasivo utilizzo della tipicità italiana? Il prezzo, sostanzialmente in costo di quanto viene servito.
Si dirà che la crisi economica ha colpito, ma meglio sarebbe dire che lo spropositato sovrapprezzo diventa controproducente e deleterio.
Andiamo per ordine, con due esempi più che lampanti che validano il discorso totale che, sebbene con ampia moderazione, stiamo facendo.
In un ristorante Eataly una bottiglia di Barolo di qualità la si può pagare anche 70 euro (costo alla cantina 12 euro, ricarico 500% + trasporto e Iva), per un tagliere con tre spicchi di Asiago Dop e otto fette di Salame di Varzi viene battuto uno scontrino di 18 euro (costo reale 3 euro per porzione, ricarico 600%). A meno di fermarsi ad un tavolo di Piazza San Marco a Venezia, dove i costi lievitano per multiplo minimo di 1,5.
Non va meglio si ci si riferisce alle trattorie di quartiere. Un primo caldo, un secondo di carne o di pesce con contorno, un quarto di vino, mezzo litro di acqua minerale e un caffè, magari con un limoncello a parte, si pagano tra i 10 e i 12 euro. Sembra poco, sembra e si accetta quasi con favore.
Eppure, 1 Kg di pasta o 1 Kg di riso fino costano all’ingrossi circa 1 euro, 4 Kg di costate o coppa o costine di maiale costano 16 euro (prezzo Eurospin); meno costa lo spezzatino di bovino adulto (12 euro per 4 Kg, Famila) o la fesa di tacchino (11 euro per 3,8 Kg, Il Gigante) piuttosto che gli anelli di totano (9 euro per 5 Kg, Il Gigante). Le cosce o i fusi di pollo non vanno oltre gli 8 euro per 3 Kg (42 cosce circa, prezzi Altasfera), mentre le patate a spicchio quotano 1 euro/Kg (Superdì), le carote vassoio 1,5 euro per 2 Kg (Bennet), il vino in dame o in bidone sotto pressione da 4 a 5 euro per 5 litri (Auchan) e l’acqua in bottiglia di vetro da 1,5 e 2 euro per 12 litri (Sant’Antonio e Pejo).
A ben vedere, questi sono i costi della materia prima per servire 20-22 pasti completi a un minimo di 10 euro cadauno. Pur aggiungendovi il caffè ed il limoncello o equipollenti, costo medio 8 euro al Kg per surrogato e 6 euro al litro per il liquore, il totale della spesa del ristoratore non supera i 26,5 euro per il totale dei pasti servibili, potendone incassa tra i 200 e i 250: in pratica, anche il 900% in più del costo originario delle materie prime.
Certo c’è il rischio d’azienda, l’affitto, gli stipendi del personale, i costi di gestione, le imposte e le tasse, ma c’è anche il “nero”, il non compreso e il riciclato. Come dire c’è più di tutto, anche del presunto ragionevole.

L’Italia, nella media del consumo alimentare non domestico quotidiano si presenta così, cara e preziosa, mentre cresce sempre di più il panino kebab a 3,5 euro bibita compresa, oppure il toast Mc a 1,20 euro, piuttosto che il cheese burger a 90 cent, fino ad arrivare al “can you eat” dei ristà cinesi e giapponesi che a mezzogiorno, per 12.90 euro ti concedono l’uscita con sacchetto aggiuntivo a titolo di cena già pagata. Ma poco o nulla di ciò fa parte dell’agroalimentare Made in Italy.

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Spaghetti pomodoro e basilico

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Hamburger al formaggio – Sushi

Autore: C.Maurizio Scotti
13/02/2017