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Ora pro lactis, encomio per un alimento controverso – Parte 2^

di Nicolò Gallo Curcio

Storia del consumo dei prodotti lattiero-caseari e falsi miti

Antica raffigurazione
La più antica raffigurazione della lavorazione del latte: il “Fregio della latteria”, Uruk 3000 a.C., attualmente conservato nel museo di Bagdad

Nel tentativo di orientare il consumatore verso delle scelte consapevoli e sane, la seconda parte dell’articolo si propone di analizzare le origini e le attuali concezioni tendenziose secondo cui il consumo di latte andrebbe evitato da parte di tutta la popolazione.

Latte e derivati nella storia

Nell’antichità il latte animale non era considerato un alimento idoneo al consumo umano. Ippocrate e Galeno ne consigliavano l’uso solamente a scopo medicinale, sottolineandone i numerosi pericoli per la salute che questi poteva rappresentare. Tali considerazioni, ovviamente, sono frutto di osservazioni climatico-ambientali, poiché il contesto in cui si svilupparono la cultura greca e poi latina è caratterizzato dalla presenza di climi caldi; questi, insieme alla mancanza delle conoscenze che permettessero un’efficace conservazione e controllo igienico-sanitario del latte, contribuirono a numerosi casi di decessi legati al suo consumo. Nelle regioni in cui la temperatura era invece più rigida (e quindi più idonea alla conservazione e al consumo dell’alimento), come nel Nord dell’Europa, le popolazioni che vi abitavano erano invece descritte – talora con indignazione frammista a stupore – come consumatrici abituali di latte.

Rappresenta un errore, inoltre, pensare che l’uomo facesse uso esclusivo del latte vaccino, e che solo in seguito ci sia stato il ricorso alla mungitura delle altre specie lattiere per trarne prodotti diversi sotto il profilo aromatico e nutrizionale. Fino ai primi secoli dell’Età moderna, invece, il latte per eccellenza era quello di capra (o di pecora) poiché era di gran lunga preponderante l’allevamento di caprini, ovini e suini. Isidoro di Siviglia, nel VII secolo, prospetta una distinzione preliminare fra due categorie di animali, da lavoro come i bovini e gli equini e quelli a scopo nutritivo come gli ovini e i suini; tale classificazione corrispondeva anche agli usi alimentari e si rifletteva nelle categorie dietetiche e gustative. Il latte di capra – scrive nel XV secolo l’umanista Bartolomeo Sacchi, detto Platina – aiuta lo stomaco, elimina le occlusioni del fegato e lubrifica l’intestino; di qualità inferiore erano invece ritenuti quello di pecora e di vacca.

Bartolomeo Sacchi
Bartolomeo Sacchi, detto Platina

Resta comunque inteso che «l’uso eccessivo del latte non è consigliabile». Giudizio condiviso dal medico Pantaleone da Confienza, autore del più antico trattato conosciuto sul latte e i latticini, la Summa Lacticiniorum, pubblicata nel 1459. Il latte, scrive Pantaleone, è consigliabile esclusivamente alle persone che godono di perfetta salute, e con molte precauzioni: dovrà essere di bestia sana, di buona qualità e appena munto; lo si berrà in ogni caso a digiuno, ad almeno tre ore di distanza dai pasti, astenendosi poi dall’esercizio immediato di attività fisiche impegnative. Inoltre, ci si dovrà guardare dal mescolare nel proprio stomaco latte e vino, bevande che la cultura tradizionale considera incompatibili: nei primi tempi del cristianesimo, il pasto sacro dei fedeli, che progressivamente si sarebbe orientato verso il consumo rituale di pane e vino, comprendeva talora il latte (associato al pane o al miele) in alternativa al vino – che si sostituisce al latte nell’immaginario culturale e religioso nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, ossia quando quest’ultimo cessa di avere una valenza nutritiva primaria.

Sarebbe fuorviante ritenere che il latte non abbia avuto un ruolo decisivo sul piano nutrizionale nel regime alimentare degli uomini e delle donne del Medioevo. Pochi bevevano latte, ma l’uso di trasformarlo in formaggio era pressoché universale – fra l’altro, costituiva un ottimo stratagemma per provvedere alla sua conservazione nel tempo. A dire il vero, anche nei confronti del formaggio la cultura medievale nutriva forti perplessità; i misteriosi meccanismi della coagulazione e della fermentazione erano visti con sospetto dalla scienza medica, e i trattati di dietetica mostravano diffidenza verso il formaggio, sconsigliandone il consumo o ponendovi dei forti limiti. In questi termini si erano espresse le maggiori autorità scientifiche del mondo greco e latino e i grandi medici arabi che nel Medioevo ne avevano ripreso i dettami, trasmettendoli all’Occidente europeo. «Caseus est sanus quem dat avara manus», solo il formaggio mangiato a piccole dosi non fa male alla salute. Soprattutto il formaggio stagionato era oggetto di tale valutazione negativa: il già citato Platina lo condanna poiché «è pesante da digerire, nutre mediocremente, non fa bene allo stomaco e all’intestino, genera bile, fa venire la gotta, dolore ai reni, renella e calcoli». Il fresco invece «nutre molto e in maniera efficace, calma l’infiammazione dello stomaco, giova agli ammalati di tisi». Giudizi legati non solo a osservazioni di ordine teorico (i processi di fermentazione assumevano spesso, nella cultura antica e particolarmente in quella biblica, significati negativi legati alla corruzione e putrefazione della materia organica), ma anche a considerazioni pratiche, dettate dalle caratteristiche estetiche, gustative, olfattive di un prodotto che non di rado doveva assumere – nonostante l’impiego massiccio del sale per favorirne la conservazione – un aspetto marcescente.

I quattro elementi
Louis Finson, “I Quattro Elementi”, 1611

La dietetica medievale ha ereditato da Ippocrate un sistema quaternario formato da 2 qualità attive, il caldo e il freddo, e 2 passive, il secco e l’umido. La combinazione di queste dà origine ai 4 elementi di cui è composto tutto il creato: il fuoco, caldo e secco; l’aria, calda e umida; l’acqua, fredda e umida; la terra, fredda e secca. Questi 4 elementi danno origine poi ai 4 regni della natura (minerale, vegetale, animale e umano), alle 4 stagioni, alle 4 direzioni, e infine ai 4 umori che compongono il corpo umano: la bile gialla, calda e secca, la cui prevalenza dà il temperamento collerico; il sangue, caldo e umido, la cui prevalenza dà il temperamento sanguigno; la flemma, fredda e umida, la cui prevalenza dà il temperamento flemmatico; e la bile nera, fredda e secca, la cui prevalenza dà il temperamento melanconico. Anche gli alimenti sono classificati a seconda della loro appartenenza a uno dei quattro elementi: quello ritenuto più nobile è il fuoco, cui appartengono prima di tutto le spezie; poi viene l’aria, e cioè gli uccelli; l’acqua, con il pesce; solo in ultimo la terra, in cui rientra la carne di animali quadrupedi e le verdure. A questo punto occorre sfatare il mito che le spezie nel Medioevo venissero utilizzate per mascherare il sapore della carne conservata troppo a lungo: poiché legate all’elemento del fuoco, aggiungere spezie a una pietanza voleva dire renderla più calda e secca, quindi più sana e facile da assimilare. Si precisa che la qualifica di “caldo” o di “freddo”, ovviamente, non ha niente a che vedere con la temperatura, bensì sul come gli alimenti vengono percepiti dai nostri sensi (ad esempio il pepe, brucia come il fuoco mentre la zucca è rinfrescante come l’acqua). Essendo la malattia uno squilibrio degli umori, il medico dovrà prescrivere una terapia, ma anche una dieta capace di correggere l’elemento in sovrabbondanza con quello di natura opposta: una malanno legato all’eccesso di flemma come una patologia polmonare, per esempio, vuole una dieta fatta da cibi caldi e secchi. Dato che la natura dell’uomo tende ad essere sanguigna, cioè calda e umida, i cibi di natura fredda vanno sempre sottoposti a una cottura preventiva ed è sempre buona norma accompagnarli con qualcosa di caldo. Devono essere prese in considerazione poi l’età del paziente, il sesso, la stagione e l’ambiente in cui vive (ad esempio: gli anziani sono più freddi e secchi dei giovani; la donna è più fredda e umida dell’uomo; l’inverno è freddo e umido e l’estate è calda e secca; al Sud si è più caldi che al Nord); in funzione di tutte queste variabili vengono suggeriti abbinamenti, modalità di cottura e ordine di successione delle vivande. Per quanto riguarda il formaggio, Platina sosteneva la necessità di mangiarlo alla fine del pasto, «perché sigilla la bocca dello stomaco e toglie la nausea provocata dai cibi grassi». Tale virtù del formaggio, enunciata dal Regimen Sanitatis della Scuola Salernitana («si post sumatur, terminat ille dapes», ovvero “se consumato dopo, pone fine al pasto”) e ribadita dai dietologi per secoli e secoli, è certamente all’origine degli usi alimentari conservatisi fino ai giorni nostri nonché di proverbi, ovunque diffusi, che non ritengono concluso il pasto «finché la bocca non sa di formaggio». Tutto ciò, naturalmente, riguardava solo la piccola schiera di quanti potevano permettersi di scegliere. Ogni riserva cade nei casi di necessità, quando è la fame a imporre le sue ragioni; sulle tavole umili costituisce un piatto forte, una fonte primaria di sostentamento mentre sulle tavole ricche compare solo come abbellimento, ossia quale ingrediente di vivande più elaborate.

Questa concezione rimane in parte valida nel Medioevo, inquadrandosi, però, in un percorso di nobilitazione del prodotto che alla fine porta a un rovesciamento, a una decisa valorizzazione del ruolo economico, alimentare e culturale del formaggio. A dare il via a questa redenzione è il modello alimentare monastico il cui elemento caratterizzante è la rinuncia, parziale o totale, al consumo di carne, che veniva rimpiazzata da alimenti sostitutivi quali uova, pesce e, per l’appunto, prodotti lattiero-caseari. Tale voto finì per coinvolgere l’intera società cristiana così che, considerando quaresima, vigilie ed astinenze settimanali, per circa un terzo dell’anno il consumo di carne risulta essere proibito. Se da un lato queste imposizioni contribuirono al rafforzamento della connotazione del formaggio quale alimento povero, dall’altro fecero crescere l’attenzione sui prodotti lattiero-caseari che divennero sempre più oggetto di sperimentazioni e ricerche, dalle quali sarebbero derivate le moderne tecniche di risanamento del latte, nonché le conoscenze tecniche che avrebbero permesso di ottenere prodotti sempre più eterogenei in termini di gusto e consistenza.

Scuola salernitana
Regimen Sanitatis, Scuola Salernitana

Le bufale sul latte

In epoca contemporanea il crescente interesse di coloro che si occupano di informazione nel fornire notizie, spesso senza un’adeguata selezione delle fonti, ai consumatori – a loro volta sprovvisti degli strumenti necessari per riconoscere quelle false – ha avuto l’effetto di creare degli allarmismi circa i possibili effetti avversi causati dal consumo di latte e derivati. Di seguito una breve rassegna delle credenze più comuni:

  • In armonia con la superstizione del latte quale alimento legato e vincolato all’infanzia, il suo consumo in età adulta viene spesso additato come innaturale, affermazione avvalorata dalla progressiva riduzione della capacità dell’uomo di digerire il lattosio. Il grado di intolleranza al disaccaride è tuttavia molto variabile e correlato a molteplici fattori quali la composizione del pasto con il quale viene assunto, la dose, la velocità di transito nel tubo digerente e il potenziale fermentativo del microbiota intestinale. La capacità di digerire il lattosio sino all’età adulta rappresenta un’eredità genetica di quando l’uomo cominciò ad addomesticare gli animali per la produzione di latte perché, con la selezione di individui lattasi-persistenti, i pastori avrebbero potuto avvalersi dei prodotti lattiero-caseari quale fonte di nutrimento; in Italia circa il 50% della popolazione possiede tutt’ora questo vantaggio evolutivo (figura 4), sebbene la maggior parte di coloro che presentano problemi nella digestione del lattosio sarebbero in grado di tollerare fino a 250 ml di latte vaccino in una singola dose senza manifestare disturbi intestinali. Vi sono inoltre delle condizioni nelle quali la facoltà di digerire il lattosio viene meno in quanto secondaria a patologie infiammatorie intestinali, che sono responsabili della perdita d’integrità delle cellule della mucosa intestinale; trattasi di un intolleranza transitoria la cui remissione è totale con la risoluzione della causa primaria. Poiché i processi fermentativi determinano l’idrolisi della maggior parte del lattosio, si riscontra non di rado come gli individui intolleranti al disaccaride riescano a consumare latti fermentati e molti formaggi stagionati; per coloro che presentano una grave e scientificamente documentata intolleranza al lattosio si suggerisce, anziché abolire il consumo di latte e derivati – che, come visto, sono alimenti particolarmente ricchi di nutrienti -, di optare per i prodotti senza.

Intolleranza al lattosio Mappa
Figura 4
: L’intolleranza al lattosio nel mondo (Ishayek, 2018)

  • Altra annosa questione è l’associazione tra consumo di latte e insorgenza di patologie oncologiche, tesi suffragata dall’ormai rinomato China Study le cui conclusioni sono fortemente avversate dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro; il China Study è un ampio studio epidemiologico svolto durante gli anni Ottanta sulla popolazione cinese per verificare l’esistenza di un nesso causale tra determinati alimenti e lo sviluppo di malattie cardiovascolari e oncologiche, i cui risultati sono stati pubblicati in un libro (anziché su delle riviste scientifiche sottoposte a revisione tra pari come accade normalmente per le pubblicazioni attendibili). Il testo afferma che la caseina sarebbe un potente fertilizzante per il cancro e auspica l’abolizione totale di qualsiasi proteina e grasso animale; fra caseina e sviluppo di tumori effettivamente esiste una relazione, che è tuttavia analoga a quella fra il cancro e altre proteine, anche di origine vegetale. Nel libro così vengono mescolate indicazioni e dati corretti con altri non sostenuti da osservazioni scientifiche adeguate, molto spesso frutto di mere correlazioni apparenti; certo, ricerche più attendibili del China Study dimostrano come una riduzione delle proteine e dei grassi animali diminuisca il rischio di sviluppare un tumore, nel contesto sempre di una dieta varia ed equilibrata. Sempre nella letteratura scientifica è possibile rinvenire un numero consistente di studi che analizzano il legame tra consumo di latte e latticini e il rischio di sviluppare un cancro: per i tumori del tratto gastrointestinale (esofago, stomaco, pancreas e colon-retto) alcuni lavori mostrano una diminuzione del rischio di ammalarsi associata al consumo di latticini, mentre per altri non vi sono legami significativi; quanto ai tumori che dipendono dagli ormoni (prostata, seno, endometrio e ovaio), i risultati sono ancora più eterogenei e lo stesso vale per tumori che colpiscono rene, tiroide e polmone. Il fatto che ancora non si sia giunti a una conclusione definitiva sul legame tra consumo di latticini e rischio oncologico dipende dalla presenza di numerosi fattori confondenti, uno di questi è senza dubbio la difficoltà nel determinare con esattezza il livello di consumo di un determinato alimento all’interno di una dieta complessa; inoltre, molti degli studi sul tema prendono in considerazione l’effetto globale del consumo di “latte e latticini”, pur essendo chiaro che possa essere completamente diverso se si parla di yogurt, formaggio stagionato oppure latte. Un esempio su tutti: sebbene sia stata evidenziata un’associazione positiva tra l’assunzione di latte intero e la progressione della malattia nei pazienti affetti da un tumore alla prostata in uno stadio precoce, gli stessi soggetti sembrerebbero giovare dell’assunzione dei prodotti a ridotto tenore lipidico, indicando come vi potrebbero essere degli ulteriori fattori non presi in considerazione e meritevoli di approfondimenti scientifici.
  • Il contenuto di amminoacidi solforati nel latte rappresenta uno dei principali motivi per cui se ne sconsiglia l’assunzione; la digestione delle proteine recanti tali residui darebbe origine all’acido solforico, componente responsabile dell’abbassamento del pH ematico. I sistemi tampone presenti nel nostro organismo si troverebbero così a dover far fronte a un’alterazione dell’acidità del sangue, che verrebbe tamponata con la liberazione di ioni calcio da parte delle ossa e una conseguente demineralizzazione delle stesse; è interessante notare come, malgrado il contenuto di proteine e gruppi fosfato del latte sia responsabile dell’aumento del carico acido della dieta, allo stesso tempo l’assorbimento intestinale di calcio sia favorito dal consumo di latte. A parte il fatto che non sussistono correlazioni tra perdita di densità ossea ed escrezione di calcio, è stato dimostrato come non vi sia differenza tra diete vegetariane e onnivore in termini di acidificazione del sangue, suggerendo come la dieta da sola non sia in grado di modificarne i valori all’infuori dell’intervallo fisiologico. Alla base delle convinzioni che il latte possa essere dannoso per la salute delle ossa vi è la cosiddetta industria delle diete, settore redditizio e di moda che è infestato da sedicenti “professionisti della nutrizione” improvvisati che spesso divulgano le teorie più irrazionali e fantasiose, distogliendo l’attenzione dalle vie suggerite dalla logica e dalla scienza. Il tutto viene spesso proposto con nomi esotici, richiami accattivanti e metodologie costruite sfruttando le credenze delle persone, proponendo una serie di soluzioni consistenti nell’esclusione di intere classi di prodotti alimentari; l’abolizione di latte e derivati dalla dieta, soprattutto durante la crescita e fino al raggiungimento della massima densità ossea verso i 30 anni, potrebbe compromettere la salute delle persone aumentando il rischio di osteoporosi nella terza età.

consumo di prodotti caseari
Consumo di prodotti lattiero-caseari e salute (↓ associazione/effetto positivo; ↑ associazione/effetto negativo; → assenza di associazioni/effetti) (Thorning, et al., 2016)

Conclusione

Di fronte alla stupefacente eterogeneità di aromi e consistenze di tali alimenti ci si potrebbe meravigliare di come tutto ciò possa essere ottenuto semplicemente a partire dalla materia prima ricavata dalla mungitura regolare e ininterrotta di animali in buono stato di salute e nutrizione che, per le particolari caratteristiche bromatologiche che possiede, si presta a numerosi trattamenti tecnologici in grado di dare origine alla tanto variegata categoria dei derivati dal latte.

La particolare composizione chimica del latte fa di esso un alimento completo la cui assunzione, secondo le indicazioni delle Linee Guida per una Sana Alimentazione e nell’ambito di un’alimentazione varia ed equilibrata, può facilitare il raggiungimento degli obiettivi nutrizionali di alcuni importanti macro- e micronutrienti in tutte le fasce d’età e nelle varie condizioni fisiologiche. Un appropriato consumo di latte e derivati ha effetti positivi sulla salute, fatta eccezione per alcune condizioni patologiche specifiche (intolleranza al lattosio e allergia alle proteine del latte).

Una corretta alimentazione, combinata con uno stile di vita attivo, aiuta a mantenere il corretto peso corporeo e a prevenire numerose patologie. La ricerca della bacchetta magica e di soluzioni miracolose porta a distogliere da tali certezze e a dar credito alle informazioni che circolano nei vari mezzi di informazione, dove le notizie sensazionalistiche sono capaci di indurre comportamenti errati oppure allarmismi ingiustificati. Occorre, quindi, che vi sia attenzione nell’interpretare e divulgare correttamente gli studi scientifici; di fondamentale importanza sarà anche la selezione delle fonti, tra le quali andranno privilegiate le revisioni sistematiche e le meta-analisi della letteratura scientifica disponibile e aborriti pareri/aneddoti di esperti.

Le prove scientifiche
La forza delle prove scientifiche (EUFIC, 2017)

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Nicolò Gallo Curcio (Roma), Laureato in Scienze delle Attività Motorie e Sportive e Magistrale in Scienze della Nutrizione Umana. Libero professionista. E-mail: n.gallocurcio@gmail.com