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Il Monococco, il frumento che viene da (molto) lontano

di Ezio Casali

Negli ultimi tempi, caratterizzati dal punto di vista gastronomico dalla continua ricerca della salubrità dei cibi e di sapori andati ormai perduti, diverse aziende agricole stanno riscoprendo la coltivazione di cereali antichi orientandosi alla coltivazione delle cosiddette “vecchie varietà” di grano (un esempio che vale per tutti è il Senator Capelli, un frumento che ha fatto la storia dell’agricoltura italiana), ma anche del farro, nonché di mais, segale, ecc.

Ma nel variegato mondo della cerealicoltura “di nicchia” un posto importantissimo va riservato al monococco, il primo frumento coltivato dall’uomo e capostipite di tutte le specie di grano che ancora troviamo sulle nostre tavole; ma cos’è questo monococco?
Per iniziare ad approcciarci a questo cereale possiamo partire da Linneo che, nel XIII secolo, riconobbe sette specie di frumento includendole tutte nel genere Triticum; successivamente nel genere Triticum vennero identificate tre serie, tra loro differenziate per il numero di cromosomi.

Queste serie sono:

  • monococca, diploide con numero cromosomico 2n = 14;
  • dicoccoidea, tetraploide con numero cromosico 2n = 28;
  • speltoidea; esaploide con mumero cromosico 2n = 42.

Nelle serie monococca si individua una sola specie, Triticum mococcum, con due sottospecie, T. boeticum (anche T. monococcum aegilopoides) e Triticum monococcum monococcum. La prima rappresenta la specie selvatica, mentre la seconda deriva dal processo di domesticazione attuato dai primi agricoltori della storia nell’areale dell’Europa centro-meridionale, nell’Asia minore, in Crimea ed in Transcaucasia.
Successivamente, ma comunque anteriormente al 4.000 A.C., a seguito di incroci spontanei tra le specie diploidi e specie selvatiche (Aegilops spp.) originarono le specie tetraploidi ed esaploidi tra cui il farro (Triticum dicoccum, 2n = 28), il frumento duro (T. durum, 2n = 28) il frumento tenero (T. aestivum, 2n = 42).

grano monococco
A sinistra Aegilops speltoides, da cui derivò il farro e a destra  Aegilops tauschii, da cui derivò il grano tenero (foto Wikimedia commons)

Con il progredire della ricerca ed il conseguente miglioramento genetico, la coltivazione del monococco andò via via perdendosi, preferendo quelle varietà più produttive e quindi meglio adatte ad una agricoltura che andava verso l’intensivizzazione.
Per avere un’idea del perché gli agricoltori abbandonarono questo cereale basta riferire un dato: in Pianura Padana una normale produzione di frumento tenero si attesta attorno alle 7 tonnellate/ettaro, mentre la produzione del monococco non supera le 2 – 3.
Inoltre il monococco, così come il farro, è un cereale “vestito”, cosiddetto in quanto, al momento della trebbiatura, il peduncolo che collega ogni singola spighetta al rachide centrale si disarticola dallo stesso e rimane ad avvolgere la cariosside anche dopo la raccolta per cui prima di ogni altra lavorazione si deve procedere alla decorticatura (o pilatura) consistente, appunto, nel liberare le cariossidi dal loro rivestimento di glume e brattee per renderle trasformabili in farina, con evidente aggravio di costi.

grano monococco cariossidi frumento crusca
A sinistra particolare di cariossidi vestite, a destra confronto tra cariossidi vestite e decorticate (foto Wikimedia Commons)

Ma allora perché la coltivazione del monococco sta rivivendo una seconda giovinezza? Le motivazioni sono diverse, ma le possiamo così riassumere brevemente:

– è una pianta estremamente rustica, adattabile a diverse condizioni pedoclimatiche e la cui semina può avvenire sia in autunno che a fine inverno (questa evenienza e quelle riportate di seguito sono state riscontrate in diverse prove in campo effettuate in prima persona con la collaborazione di un’azienda agricola che coltiva, trasforma e commercializza monococco come pane, dolci, pasta, ecc.);

– permette l’utilizzazione di agrotecniche a basso impatto ambientale quali la semina su sodo e la minima lavorazione, contribuendo così ad una minore emissione di anidride carbonica in atmosfera;

– non necessita, in condizioni normali di coltura, di trattamenti antiparassitari, adattandosi quindi all’utilizzo di tecniche di agricoltura biologica e a basso impatto ambientale.;

– è in grado di sfruttare al meglio la fertilità residua del terreno, permettendo quindi di ottenere ottimi risultati produttivi, sia qualitativi che quantitativi, senza o comunque con minimi apporti di concimi di sintesi. Va anzi detto che risulta molto sensibile alla concimazione azotata laddove, nel caso si ecceda con le dosi di fertilizzante, si assiste ad una notevole crescita in altezza della pianta (con conseguenti problemi di allettamento) senza avere un significativo aumento della produttività;

Dal punto di vista nutrizionale poi la sua ricchezza in proteine, vitamine, carotenoidi (fino a 5 – 10 volte rispetto ai frumenti comuni), β-carotene (precursore della vitamina A), ferro, zinco ed antiossidanti ne fanno un ottimo alimento che, tra l’altro, grazie al  bassissimo contenuto in glutine (attorno al 3%) potrebbe rappresentare una buona alternativa a coloro che soffrono di allergie alimentari (sembra che anche chi soffra di leggere forme di celiachia possa consumare monococco senza problemi, anche se si stanno ancora aspettando risultati certi e provati che possano confermare tale possibilità).

grano monococco
Piante e pannocchia di Triticum monococcum (foto Wikimedia commons)

Infine non possiamo scordare l’aspetto più interessante dal punto di vista edonistico; la pasta e i prodotti da forno e di pasticceria secca ottenuti con farina di monococco (che spesso per la produzione del pane viene tagliata con farine di grano tenero di forza in modo da garantire un’adeguata lievitazione) presentano un aroma caratteristico ed una “intensità gustativa” che permette di apprezzare sapori davvero dimenticati e soddisfacenti dal punto di vista sensoriale, adatti a chi desidera sperimentare piacevoli “variazioni sul tema” in cucina con un prodotto sano e ricco di storia.

Ezio Casali, iscritto all’Albo Provinciale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati di Cremona, insegna presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “Stanga” di Cremona. Si occupa di autocontrollo, soprattutto negli agriturismi, e di agricoltura multifunzionale. Curriculum vitae >>>