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La pesca tradizionale a Livorno

di Lapo Nannucci

Fin da bambino sono sempre stato affascinato dal mare e dalla figura del pescatore, un mestiere molto duro, talvolta ingrato che per le sue caratteristiche, comporta un contatto molto stretto, direi intimo, con l’ambiente marino.
Per cercare di comprendere meglio le tradizionali tecniche tipiche della piccola pesca costiera della nostra regione ed anche alcuni aspetti caratteristici della vita di mare, mi sono recato a Livorno a trovare un mio caro amico, Cristiano, un giovane pescatore professionista nonché livornese D.O.C.
Scendo di macchina e raggiungo la banchina, dove trovo il mio amico tutto indaffarato a riordinare gli strumenti che utilizzerà nella successiva battuta di pesca. Come prima cosa, ovviamente inizia a sfottermi cercando di imitare un po’ l’accento fiorentino, come di consueto io gli rispondo con un arrangiato Boia dé alla livornese e poi iniziamo la nostra chiacchierata.
“La passione per la pesca è radicata in me da sempre” dice. Mi racconta che fin da bambino pescava con la canna dai moli nei pressi delle aree portuali e successivamente, all’età di 9-10 anni, ha iniziato a praticare la pesca in apnea di piccoli pesci. Individuava i piccoli branchi attraverso l’ausilio di una maschera da sub e li circuiva con una piccola rete.
Negli anni avvenire, spiega, ha iniziato ad andare a pescare a bordo di imbarcazioni di proprietà di alcuni amici di suo padre ed all’età di 24 anni, una volta acquisita la licenza di pesca ha comperato la prima imbarcazione, sulla quale ha iniziato l’attività di pesca professionale con attrezzi leggeri, ovvero reti da posta e palamiti.
Le reti da posta fisse sono strumenti costituiti da una struttura molto semplice: si tratta generalmente di una rete rettangolare sulla quale sono installati dei galleggianti di plastica o sughero nella parte superiore (lima dei sugheri) e dei piombi (lima dei piombi) in quella inferiore. Le reti da posta fisse, una volta calate in mare, rimangono ancorate sul fondo tramite delle zavorre, in maniera da restare pressochè immobili anche in presenza di corrente. Il pesce, che non riesce a notare la rete, passando attraverso le maglie vi rimane impigliato.

Rete da posta

Il palamito risulta l’attrezzo che racchiude in sé la piena essenza della tradizione livornese e che di fatto, Cristiano utilizza più frequentemente. Nello specifico, il tipo di palamito che preferisce è quello denominato a “mazzerino”. Si tratta di un attrezzo composto da una lenza madre o trave, lunga dai 500 ai 700 metri, alla quale sono collegati spezzoni di lenza di diametro inferiore chiamati braccioli, che vengono armati con ami ed innescati con vari tipi di esche.
Per capire meglio la struttura di questo strumento, lo analizziamo nel senso della sua lunghezza. Come prima cosa troviamo la cordata, si tratta di una cima che serve per salpare l’attrezzo al momento del recupero a bordo, alla quale viene collegata una bandierina. Sulla bandierina viene indicato il nome dell’imbarcazione, che serve per l’avvistamento dell’attrezzo in acqua da parte dei natanti. Scorrendo l’attrezzo troviamo tre braccioli ed il primo galleggiante, da dove parte, nella sua lunghezza totale, il trave. Quest’ultimo viene mantenuto sollevato dal fondo grazie ad una serie di galleggianti, all’incirca 1 ogni 15 metri di trave, ai quali vengono collegati altrettanti spezzoni di lenza muniti di zavorre, che raggiungono il fondale. Il nome “mazzerino” sta ad indicare il tipo di zavorra utilizzato, che nello specifico, nella tradizione livornese, risultava essere un pezzetto di marmo recuperato dagli scarti delle aziende che lavoravano la pietra. Al giorno d’oggi invece, per mantenere il contatto del sistema pescante con il fondo del mare, nella maggior parte dei casi vengono impiegati piombi di varia misura.
Sulla porzione di trave compresa tra due galleggianti consecutivi, vengono collegati 5 braccioli di lunghezza pari a circa 1,70 m e distanziati tra loro di circa 3 metri. La parte finale della lenza madre termina con un altro spezzone di corda munito di bandiera, la quale consente l’individuazione di della fine dell’attrezzo.
Questo particolare complesso pescante viene generalmente utilizzato quando si opera su fondali rocciosi e l’impiego di braccioli di modesta lunghezza, che vengono mantenuti staccati dal fondo grazie all’ausilio dei galleggianti posti sul trave, permette di evitare che si verifichino frequenti incagli durante le operazioni di recupero. Il “mazzerino” viene adoperato durante il periodo estivo per la cattura di saraghi ed orate, mentre durante la stagione autunnale, si preferisce utilizzare un’altra tipologia di palamito, che a differenza di quello sopra descritto prevede l’installazione di un maggior numero di galleggianti sul trave, in maniera da mantenere l’attrezzo più vicino alla superficie del mare.

Palamito

Le esche principalmente impiegate sono: le oloturie tagliate a pezzetti ed innescate sugli ami, i bibi (vermi che vivono sotto la sabbia nelle zone di basso fondale) ed i granchietti di sabbia. Questi ultimi mi spiega Cristiano risultano i migliori per fare selezione sulle prede più grosse, soprattutto per quanto riguarda le orate, che grazie al loro robusto apparato boccale ed ai denti molariformi, riescono a rompere il carapace dei crostacei ed a cibarsene.

Palamito innescato e pescato

Al termine della spiegazione tecnica chiedo alcune informazioni sull’organizzazione della giornata di pesca col palamito e lui mi risponde “questo tipo di attività non ha orari, tra l’approvvigionamento delle esche, la sistemazione degli attrezzi e l’innesco degli ami non si finisce mai, vanno via giornate intere”.
Il palamito viene generalmente calato prima del tramonto su fondali che vanno dai 3 ai 30m di profondità, a seconda delle condizioni, mentre il recupero del pescato viene effettuato all’alba del giorno successivo. Si tratta di un lavoro che si basa molto sull’esperienza e sulle sensazioni, le variabili sono tantissime e non esiste una regola precisa. Infatti, nonostante si tenti di seguire un criterio per posizionare l’attrezzo in determinate condizioni, sicuri di portare a casa un bel quantitativo di pesce, alla fine bisogna sempre fare i conti con il mare, che come dice Cristiano “ti sbugiarda sempre”.
Infine gli domando cosa ne pensa della vita del pescatore e com’è cambiata la situazione di questo antico mestiere nel corso degli anni. Lui mi spiega che ad oggi, a causa della spietata concorrenza e dell’incremento notevole delle spese gestionali, la situazione è molto più complicata rispetto al passato. “Una vita di sacrificio” dice, caratterizzata da tante ore trascorse in mare, con il vento, le mareggiate, con il freddo l’inverno e con tanto lavoro anche a terra (preparazione dell’esca, controllo e manutenzione degli attrezzi, sbarco del pescato). Insomma un lavoro che per forza di cosa deve essere accompagnato da una passione bruciante per il mare e che, nonostante le difficoltà, ti fa provare forti emozioni e ti permette di lavorare in un ambiente stupendo.
Alla fine della chiacchierata, soddisfatto delle informazioni apprese sulla vita del pescatore costiero, ringrazio e saluto l’amico Cristiano e con la rinnovata promessa di vederci presto, magari per fare un bagno rilassante nello specchio d’acqua sopra le secche della Meloria.

Lapo Nannucci ha conseguito la laurea magistrale in Scienze e Tecnologie agrarie Vecchio Ordinamento presso la Facoltà di Agraria di Firenze. Abilitato all’esercizio della libera professione di Dottore Agronomo, è consulente esterno presso Federpesca e fornisce consulenza tecnico-amministrativa ad allevamenti di trote in Toscana. Curriculum vitae >>>

 

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