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La pastorizia ed il suo cane da Pastore Maremmano

Attività economica primaria diffusa in tutta la Penisola Italica


In tempi di congiunture economiche sfavorevoli europee e soprattutto Italiane viene facilitata la riflessione, anche in prospettiva, sulle nostre origini economiche primarie e sul ruolo svolto da protagonisti dei nostri cani da pastore appenninici.


di Franco Simoni


Documentare l’attività pastorale in Italia e la sua diffusione nella storia in tutta la Penisola ed in particolare al ridosso della dorsale appenninica, ha un valore di riscoperta delle nostre origini economiche oltreché di necessaria valorizzazione dei nostri primi collaboratori cani da pastore. E’ necessario rifarsi un pò indietro nel tempo e vedere tutte la vicende italiane, storicamente riferite. Per lo meno torniamo al Medioevo, in cui il frequente susseguirsi di dominazioni straniere e nazionali provocò il verificarsi di alterne vicende in tutti campi. Con Odoacre (476) e poi con i Goti (490/553) la grande proprietà si ridusse e l’agricoltura e l’allevamento ne trassero vantaggio. Con il dominio Bizantino (553/569) e con i Longobardi (569/774) la penisola tornò ad una miseria morale e materiale profonda. I campi divennero deserti ed i villaggi semidistrutti per le continue guerre, il bestiame si disperse. La popolazione italiana non superava i sei milioni di abitanti, prevalentemente dedita all’attività silvo/pastorale. Il Papato chiamò i Franchi che, sottomisero i Longobardi e si insediarono nel paese (774/888). Dettero vita al Feudalesimo che durò al Nord sino al 1300 circa, mentre nel Meridione ebbe inizio il periodo normanno che durò, più o meno sino alla Rivoluzione Francese. I Re Franchi assegnarono ai loro dignitari ampie proprietà, a volte intere Regioni. Nacquero i Vassalli (laici e vescovi) e i valvassori con privilegi dipendenti alla “ius lignandi e pascendi” con economia cerealicola e pastorale.
Poi incominciarono le lotte fra il Papato e l’Impero (germanico succeduto a quello Carolingio), che terminarono con le libertà Comunali. Le isole erano passate sotto il dominio arabo.


Pastore maremmano abruzzese


Alcuni ordini religiosi, il Benedettino ed il Cistercense svolsero nel frattempo opera benemerita nel campo della coltura e in quello agrario.
Dopo i comuni iniziarono le Signorie: i Visconti, gli Sforza, gli Estensi, gli Scaligeri, i Gonzaga, i Medici ed altri che si divisero ampi territori del Nord e del Centro. Intanto, come precedentemente accennato, nel Meridione i Normanni (1060/1190), gli Svevi (1190/1266), gli Angioini (1266/1435) stabilirono le loro dominazioni determinando periodi di ricchezza e di miseria. Nel meridione l’allevamento ovino fu sviluppato in modo particolare; Federico ΙΙ (1198/1250) riordinò i tratturi e le trezzare, in Puglia costituì la “la Mena delle pecore”. Dalla Spagna furono introdotti molti soggetti di razza pregiata, per migliorare la produzione della lana. Nel Centro i Papi non considerarono da meno questo tipo di allevamento che assunse dimensioni notevoli, tanto che preoccupati di questo, per proteggere l’allevamento bovino intervennero limitando i pascoli. Il Governatore di Piediluco (1484) stabilì delle zone in cui questi potevano essere mantenuti: “affinché possano comodamente sostentarsi le bestie bovine e altre bestie grosse, le quali per il grande numero delle pecore e delle capre non possono sostentarsi, anzi, per le mancanze delle erbe, più diminuiscono e deteriorano”.
Poi in Italia si stabilì il domino Spagnolo (anno 1559, nel Nord Italia, a seguito della pace di Cateau-Cambrèsis tra il Regno di Francia e gli Asburgo, al Sud, invece, la casata spagnola degli Aragonesi già dominava dal 1412 con l’infante castigliano noto come Ferdinando I d’Aragona) che provocò sensibili ripercussioni economiche, arrestando il progresso agricolo che si era avviato. Particolarmente al Sud, una certa casta baronale si era imposta rendendo la popolazione quiescente, per la clientela o per il fatalismo.


Il gregge ed il pastore


Come sempre nella storia accade, anche nelle dominazioni con il bilancio complessivo storico negativo, si individuano opere utili al progresso economico e sociale, così l’ Editto di Alfonso d’ Aragona, nel 1447, rese possibile l’accesso dei pascoli alle Puglie, realizzando una migliore regolamentazione dell’uso dei tratturi.
Quasi contemporaneamente si aprirono alcuni valichi che permisero una più agevole comunicazione con Roma e la sua vasta campagna circostante, con l’Umbria e le Marche, e presto la consistenza dei greggi, e la capacità produttiva degli stessi aumentò sensibilmente.
Al Nord, tuttavia, il risveglio fu più rapido per una mentalità diversa del popolo e per la fortuna di passare sotto dominazioni più tolleranti ed attive, come ad esempio per quanto si verificò in Toscana, adopera dei Lorenesi (1737/1790) che avviarono e portarono a termine opere di grande rilievo sia nel campo agronomico che in quello delle bonifiche. La Maremma subì una profonda e larga bonifica che vide utilizzato quasi per intero il suo vastissimo territorio per l’allevamento del bestiame bovino ed ovino.
La Rivoluzione Francese provocò anche in Italia una profonda ripercussione nei settori sociali ed economici. Si cominciò a formare la proprietà privata agraria di diverse dimensioni, anche notevoli, operante con una mentalità più moderna rispetto almeno a quella del passato, sia per quanto riguarda il rapporto tra padrone e dipendente, sia per quanto riguarda la mentalità già imprenditoriale che si andava diffondendo.
Si incomincia a notare il divario fra il Nord, il Centro e il Sud per un progresso che si avvia verso il futuro con movimento decrescente come la latitudine.
Intanto la popolazione italiana si era accresciuta passando dai 18 milioni del 1800 ai 25 milioni del 1860, e la produzione alimentare aveva raggiunto l’autosufficienza.
L’Unificazione d’Italia provoca un certo naturale disorientamento, di cui a tutt’oggi qualche traccia si rileva.
Lo sfruttamento del terreno e dell’allevamento incomincia a diversificarsi: intensivo al Nord, meno al Centro, estensivo ancora al Sud. La popolazione ovina, che è quella che maggiormente ci interessa perché in essa troviamo in proporzione la presenza dei nostri cani, raggiunge dagli anni 1866 al 1908 livelli numerici e qualitativi notevoli, raddoppiando gli effettivi che raggiungono l’entità notevole di circa 12 milioni di capi. Questa consistenza risulterà la punta massima raggiunta, dalla quale per fatti a tutti noti e che quindi è inutile riportare, inizia una lenta e costante discesa.
Questo scorcio si prefigge lo scopo di documentare storicamente la situazione ovina nazionale venutasi a determinare attraverso i secoli in particolare nella dorsale appenninica, dalla Toscana agli Abruzzi, dall’Appennino Umbro-Marchigiano a quello Laziale. Tutte regioni che hanno testimoniato le loro fiere tradizioni pastorali e che alla presenza di pecora seguiva l’opera assidua e costante dei cani da pecora che abbiamo notato più o meno numerosi a seconda della fortuna o sfortuna della pastorizia in quella o in quell’altra zona.


Soggetti di pastori mermmani


La grande ultima guerra (alla quale ho partecipato quale Ufficiale Veterinario) ha profondamente sconvolto questa attività, perché il conflitto più feroce si è espresso lungo la dorsale appenninica e nei suoi naturali contrafforti e lungo le coste, ove il continuo timore di sbarchi aveva allontanato le genti e le greggi. A questo sconvolgimento materiale ha fatto seguito quello morale e molto è cambiato. In talune regioni la pastorizia ha ceduto definitivamente, in altre zone ha ridotto le dimensioni e l’entusiasmo, come ad esempio in Abruzzo; in altre zone, come ad esempio in quelle collinari toscane, marchigiane, umbre, laziali ha trasformato i sistemi di allevamento che da transumante è diventato stanziale. Le persone dedite alla pastorizia da generazioni hanno abbandonato, così come hanno abbandonato i mezzadri che conducevano l’allevamento poderale tipico dei territori a conduzione mezzadrile. Questi vasti territori pedemontani sono stati acquistati da pastori sardi. Sono mutate le persone e la razza degli ovini, ma non i cani, riconoscibili per le loro caratteristiche, a svolgere la loro secolare funzione.
L’aspetto storico è importante, quello socio economico altrettanto, quello zootecnico non di meno, tutti risultano precisi e concordanti anche nella giustezza della denominazione che ha il nostro “cane da pastore Maremmano Abruzzese”. L’ENCI nel 1958, adottò questo criterio, quando attribuì il nome: “ razza da pastore, maremmano abruzzese” considerando evidentemente le Maremme e l’Abruzzo i territori in cui la razza era comparsa, formata, evoluta. Fu seguito il principio zootecnico della classificazione delle specie e delle razze di Linneo, Cuvier, Buffon, Cornevin, Dechambre secondo cui la denominazione deriva, generalmente, dal nome di questo o quello ambiente territoriale, geografico, in cui è esistita la propria culla e da tempi remoti è rimasta nella zona, talvolta con l’aggiunta di qualche attributo, che maggiormente ne permette l’individuazione e la differenziazione. Nei bovini esiste infatti la razza Chianina, Marchigiana, Romagnola, rispettivamente sorte in Val di Chiana, Marche e Romagna; negli equini esiste la razza Sarda, Siciliana, Murgese, la cui culla rispettivamente è la Sardegna, la Sicilia, le Murge; negli ovini esiste la razza Vissana e Sopravissana, la Bergamasca, la Leccese, l’Appenninica, da Visso, Bergamo, Lecce, Appennino. Seguendo questo principio si potrebbe, con attinenza, chiamare tale italica razza di cane da pastore: “razza da pastore dell’Appennino” oppure “razza da pastore italiano dell’Appennino” tenuto conto che nell’intera dorsale appenninica essa era comparsa, ancora prima che nelle Maremme, ancora prima che in Abruzzo, perché qui aveva trovato la sua seconda “culla”, dopo il suo ingresso in Italia.
Non dimentichiamo che nei Monti di Tatra, abbiamo il Cane di Tatra, in Ungheria, abbiamo il Pastore Ungherese, nei Pirenei abbiamo il cane dei Pirenei, tutti derivanti dallo stesso ceppo.
Questo nome dovrebbe accompagnarlo nella sua futura evoluzione perché, per assurdo, ove si dovesse tener conto di una sua maggiore o minore presenza in un territorio, ed in dipendenza di questo dovesse essergli attribuito il nome, questo, finirebbe con essere continuamente modificato nei secoli e quindi condannato ad essere costantemente provvisorio o dipendente da opinioni e punti di vista dell’uno o dell’altro.


Franco Simoni – Laureato in Medicina Veterinaria a pieni voti presso l’Università degli studi di Perugia, diventa Capitano Medico Veterinario del Ruolo Sanitario alla Scuola per Ufficiali Veterinari dell’Esercito di Pinerolo (TO). Successivamente Medico Veterinario civile, Direttore provinciale della Zootecnia della Provincia di Terni E.E.N.A., e titolare della Cattedra di Zootecnia presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “A. Ciuffelli” di Todi, si dedica dal 1950 con l’affisso Enci dei cani da pastore di “Jacopone da Todi”, alla selezione della razza del cane da Pastore Maremmano-Abruzzese e dei Monti del Caucaso, di cui è autore di numerosi saggi e pubblicazioni su numerosi libri e riviste di cinofilia, come da ultimo ha curato la stesura della sezione sui Pastori Maremmani Abruzzesi nei libri “I Pastori Italiani” De Vecchi Editore.


 






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