1

La valorizzazione e la pianificazione del paesaggio

di Francesco Maiosi


La tutela e la valorizzazione del paesaggio


La corretta attuazione del principio contenuto nell’articolo 9 della Costituzione, secondo quelli che furono i propositi dei costituenti, ed alla luce delle interpretazioni che del richiamato principio hanno dato la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, dovrebbe avvenire attraverso due specifiche funzioni: la tutela e la valorizzazione. Dette funzioni, seppure ontologicamente distinte e riflettenti un ordine di attribuzioni nettamente differenziate, condividono, tuttavia, le medesime finalità: la preservazione e del territorio nazionale e la promozione dello sviluppo della cultura.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio non si limita a dare una definizione di «beni paesaggistici», ma all’articolo 131, definisce espressamente anche il «paesaggio». Per quel che a noi interessa, occorrerà chiedersi brevemente se nell’accezione codicistica «paesaggio» e «beni paesaggistici» sono la stessa cosa, soprattutto con riferimento alla valorizzazione ed alla tutela degli stessi. In proposito le posizioni espresse dalla dottrina sono discordanti. Un primo filone ne ha sostanzialmente affermato l’identificazione, ritenendo che i beni paesaggistici non sono altro che una declinazione del paesaggio, mentre altra e più seguita dottrina è nel senso che si tratta di entità distinte, corrispondendo il paesaggio a qualcosa di più ampio rispetto ai beni paesaggistici.
Questa seconda interpretazione si baserebbe su un dato strettamente letterale, che si ritrova nell’articolo 131 del decreto legislativo 42/2004, come modificato dal decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63. Inoltre, coloro che si associano a detta teoria, evidenziano che la nozione di paesaggio accolta dalla Convenzione e recepita nelle successive riscritture del Codice dei beni culturali e del paesaggio, fa riferimento ad una pluralità di paesaggi, comprensivi anche di realtà prive di pregio o interessate da processi di degrado o di abbandono, mentre i beni paesaggistici, per il loro diretto richiamo all’identità culturale, dovrebbero avere un riferimento territoriale più ristretto.
Nella definizione fornita dall’articolo 2 del Codice, la tutela e la valorizzazione non si riferisce solamente ai beni culturali ma all’intero patrimonio culturale, in cui rientrano, per espressa statuizione normativa anche il paesaggio ed i beni paesaggistici.
Ne consegue che, per precisare i concetti di tutela e valorizzazione delle diverse componenti del paesaggio, tra cui evidentemente, rientrano i beni paesaggistici, è necessario avere riguardo, oltre che alle norme che specificatamente si riferiscono a tali beni, anche alle disposizioni generali che danno la definizione, comune sia ai beni culturali che ai beni paesaggistici, delle nozioni di tutela e valorizzazione.
L’evoluzione subita dalla materia nel corso degli anni ha portato al vigente concetto di tutela fatto proprio dal Codice, il quale consiste «nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un’adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantire la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione».
Si evince che la tutela si può attuare mediante l’effettuazione di plurime attività.
Dall’attività ricognitiva, nei procedimenti rivolti all’individuazione dei beni; alla garanzia di protezione e conservazione, che si esplica soprattutto nel controllo, mediante la sottoposizione a specifici procedimenti autorizzatori, delle trasformazioni che su tali beni possono essere operate; alla previsione di comportamenti attivi finalizzati alla preservazione delle caratteristiche di valore che connotano tali beni.
Per il Codice, ognuna delle attività svolte con finalità di tutela del patrimonio culturale, è comunque indirizzata alla «pubblica fruizione», che rappresenta, dunque, il fine ultimo della tutela.
L’articolo 3 del Codice conclude stabilendo che «l’esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale». La possibilità di condizionare l’uso di un bene, sino al punto di vietarne ogni trasformazione ed anche determinate utilizzazioni, se non attraverso la concessione di un’autorizzazione sottoposta a stringenti verifiche, e senza che ciò costituisca incisione del diritto di proprietà, rappresenta l’essenza stessa della tutela. Ciò spiega perché, se un bene è dotato di valore culturale non ha bisogno del riconoscimento da parte della competente amministrazione, poiché il valore è intrinseco al bene, preesiste al bene stesso. Da ciò consegue che le misure volte a garantire la tutela del patrimonio culturale, sia quando abbiano ad oggetto la sottoposizione del bene a tutela, sia quando comportino restrizioni all’utilizzabilità o alla trasformabilità dello stesso, non conoscono indennizzabilità.
Nello specifico, l’articolo 131 del Codice, come modificato dall’articolo 2 delle disposizioni integrative contenute nel d. lgs. 63/2008, al quarto comma dispone che la tutela del paesaggio è volta a riconoscere, salvaguardare e, ove necessario, recuperare i valori culturali che esso esprime.
La disposizione conferma in linea di massima, quanto disposto dall’articolo 3 con riguardo al patrimonio culturale, prevedendo che essa avvenga, essenzialmente, attraverso le attività di ricognizione dei beni paesaggistici e nella attività di salvaguardia degli stessi.
Prima di passare all’analisi del concetto di valorizzazione, appare utile ricordare che il Codice è preciso nel tracciare una netta differenza tra l’oggetto della tutela e quello della valorizzazione: infatti, mentre l’articolo 3 del Codice contiene un’unica nozione di tutela del patrimonio culturale, in cui evidentemente rientra anche il paesaggio, l’articolo 6 prevede due distinte definizioni di valorizzazione: la prima riguardante l’intero patrimonio culturale, la seconda specificamente riferita al paesaggio.
Ebbene, passando all’analisi del concetto di valorizzazione del paesaggio, deve evidenziarsi che detta funzione assume caratteri distinti a seconda che la si riferisca al patrimonio culturale globalmente inteso, ovvero al paesaggio. Infatti, per come questa è stata comunemente intesa, la funzione di valorizzazione dei beni culturali assomma agli aspetti connessi alla pubblica fruizione, alcuni elementi ulteriori che possono definirsi tipici e che difficilmente possono immedesimarsi nella valorizzazione del paesaggio.
Deve premettersi che, diversamente da quanto avviene per la valorizzazione dei beni culturali, cui è dedicato un cospicuo numero di norme, della valorizzazione del paesaggio non veniva fatta menzione nelle precedenti versioni del Codice. La differente attenzione che il legislatore dedica alla valorizzazione dei beni culturali rispetto alla valorizzazione del paesaggio, viene spiegata da un’attenta dottrina, per «la circostanza che la valorizzazione del paesaggio è, piuttosto che rapporto giuridico, attività materiale». A ciò si aggiunga che buona parte dei contenuti della valorizzazione dei beni culturali non sono replicabili con riferimento al paesaggio per il quale, ad esempio, è meno facilmente configurabile uno sfruttamento di carattere economico od imprenditoriale, così come l’esternalizzazione dei relativi servizi. Alla scarsezza della disciplina normativa in materia di valorizzazione del paesaggio corrispondeva, naturalmente, la totale assenza di riferimenti giurisprudenziali ed una scarsa attenzione da parte della dottrina.
In tale prospettiva, per valorizzazione del paesaggio si sono intese o l’azione rivolta ad esaltare i valori paesaggistici tipici di un territorio, in modo da aggiungere interesse alla sua funzione o facilitarne l’accessibilità; ovvero l’azione diretta a recuperare siti compromessi o degradati.
Alla lacuna normativa sopra rilevata hanno posto rimedio i decreti che hanno integrato il Codice. In particolare, il d. lgs. 157/2006 ha aggiunto un capoverso all’articolo 6, comma 2 del Codice, relativo alla valorizzazione del patrimonio culturale, espressamente e specificamente dedicato alla valorizzazione del paesaggio, la quale «comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati».
Il nuovo correttivo licenziato con il d. lgs 63/2008, modificando la parte terza del Codice ha riscritto l’articolo 131, stabilendo un’ulteriore e diversa definizione di “valorizzazione del paesaggio”. Nel nuovo comma 5 del nominato articolo 131 si legge che «la valorizzazione del paesaggio concorre a promuovere lo sviluppo della cultura. A tal fine le amministrazioni pubbliche promuovono e sostengono, per quanto di rispettiva competenza, apposite attività di conoscenza, informazione e formazione, riqualificazione e fruizione del paesaggio nonché, ove possibile, la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati». Viene confermata, poi, anche la primarietà della funzione di tutela rispetto a quella di valorizzazione, nel momento in cui la predetta disposizione ricorda che «la valorizzazione è attuata nel rispetto delle esigenze della tutela». Alla nozione di valorizzazione del paesaggio viene restituita la fondamentale funzione di svolgere l’attività di miglioramento della fruizione e dello sfruttamento consapevole del paesaggio, in connessione con la promozione dello sviluppo della cultura, nonché con il sostegno alle attività di conoscenza, informazione e formazione, riqualificazione e fruizione del paesaggio.
Non pare esservi dubbio sul fatto che le concrete attività attraverso le quali si estrinseca la funzione di valorizzazione, siano da ricondurre all’attività di pianificazione del paesaggio e, nell’ambito di questa, nell’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze di tutela.
Comune alle attività di tutela e valorizzazione sembra essere l’attività di analisi delle dinamiche di trasformazione del territorio ai fini dell’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio, nonché comparazione con gli altri atti di programmazione e di difesa del suolo. Invero, con riferimento all’attività pianificatoria la distinzione tra le due funzioni di tutela e di valorizzazione sembra ancor più difficile, attesa la loro intima connessione in relazione alla pianificazione paesaggistica. Ciò che sembra accertato è che con le ultime versioni del Codice, la nozione di paesaggio è stata arricchita di sempre più ampi ed importanti contenuti, che richiederebbero maggiore attenzione e sensibilità da parte delle autorità preposte. Vero è che nelle esperienze pianificatorie che si sono succedute sino ad oggi, all’interno delle quali pure era possibile inserire contenuti connessi con la valorizzazione del paesaggio, le autorità pianificatrici si sono esclusivamente concentrate sulla normativa d’uso, intesa in senso tendenzialmente restrittivo della possibilità di trasformazione consentite dalla strumentazione urbanistica, trascurando completamente l’elemento della valorizzazione.
È auspicabile che questa tendenza cambi, soprattutto se si considera l’innovativa nozione di paesaggio che oggi è accolta nel nostro ordinamento. La pianificazione paesaggistica non dovrebbe porsi solo in termini prescrittivi e riduttivi, ma anche in termini propositivi e di concreta e fattiva collaborazione ed incentivazione al recupero dei valori paesaggistici smarriti o compromessi. Così come concepita la nuova pianificazione paesaggistica dovrebbe aggiungere utilità e prospettive di sviluppo culturale ed economico. Ne discende che, diversamente da quanto avviene per la tutela, espressamente riferita dal Codice ai soli beni paesaggistici, la funzione di valorizzazione non può limitarsi solo ad essi: come la pianificazione paesaggistica non ha ad oggetto i soli beni paesaggistici ma l’intero paesaggio, nell’ampia accezione che abbiamo accolto in precedenza, così la valorizzazione non può prendere in considerazione i soli beni paesaggistici ma, anch’essa, deve avere ad oggetto l’intero paesaggio.


La pianificazione paesaggistica


Il principio di pianificazione ha avuto espresso riconoscimento sin dalla legge 1497/1939. La legge sulle bellezze naturali prevedeva, infatti, che per le cd. bellezze d’insieme si potesse procedere alla adozione di un piano territoriale paesistico al fine di impedire che le località interessate fossero utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica. Al piano, non casualmente definito all’epoca piano regolatore, non era estranea in linea di principio la funzione regolatrice e programmatoria caratteristica dei piani territoriali.
I limiti della impostazione originaria furono corretti attraverso la norma contenuta nell’articolo 1-bis, legge 431/1985, che ha imposto alle Regioni di sottoporre a specifica normativa d’uso e di valorizzazione ambientale il territorio su cui ricadono i beni vincolati ex lege mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali. La legge del 1985 ha attribuito ai detti piani dei contenuti ed un valore sovraordinato rispetto agli strumenti urbanistici comunali e ciò al fine di offrire adeguata tutela ai valori paesistici presenti sul territorio, in modo tale da proteggerli e sottrarli ai processi di trasformazione governati in forme non troppo accorte e dai pericoli di degrado ambientale che potevano essere determinati da in interventi indiscriminati sui beni vincolati.
La riforma del 1985, confermata dall’articolo 149 del Codice, ha rafforzato l’esigenza di superare la concezione meramente conservativa e monumentale della tutela, inserendo la disciplina paesaggistica all’interno dei processi sociali ed economici.
Quanto al piano paesistico, il mantenimento della dizione della legge del 1939 non ha significato la riproposizione del vecchio schema. Come già chiarito dall’articolo 149, comma 1, del Codice, i due tipi di piano hanno le medesime finalità ambientali.
Nel Codice emergono, del resto, le novità più radicali nel sistema della pianificazione.
L’odierna impostazione data al Codice sembra seguire le linee guida già prefigurate dai testi normativi successivi al recepimento della Convenzione europea sul paesaggio in Italia. In questa ottica viene introdotto un sistema che si propone di restituire alla pianificazione quella funzione centrale, che già il richiamato articolo 1-bis della legge Galasso in qualche modo prefigurava, e che invece sinora è stata rivestita dal sistema vincolistico. Il Codice ha voluto riempire di contenuti regolativi minimi obbligatori i piani paesistici, in modo da renderli strumenti di effettivo governo dello sviluppo sostenibile delle aree paesaggisticamente rilevanti. La pianificazione paesaggistica diviene il passaggio obbligatorio essenziale per la conservazione, la pianificazione e la gestione del paesaggio, con estensione di essa a tutto il territorio regionale, con la previsione di diverse graduazioni di tutela in relazione alla ricognizione dei valori paesaggistici e alla conseguente assegnazione di obiettivi di qualità paesistica, nonché di interventi di recupero nelle aree degradate, in obbedienza alle indicazioni emerse dalla Convenzione europea del paesaggio. Questi obiettivi comportano che la tutela del paesaggio non sia ristretta a mere finalità di conservazione e salvaguardia, ma si estenda alla regolazione di ogni intervento umano destinato ad incidere sul paesaggio. In tale ottica, lo strumento principale con cui ogni intervento viene correttamente orientato rispetto ai profili paesaggistici è la pianificazione, che costituisce una strumento diretto, con cui, coscientemente, si prescrivono le modalità attraverso le quali devono avvenire determinate modificazione del paesaggio.
Il piano paesaggistico costituisce un piano territoriale, i cui effetti non sono solo quelli caratteristici di un piano di direttive, ma anche quelli di un piano di prescrizioni immediatamente vincolanti per i soggetti privati. Per quanto attiene alle funzioni che può avere il piano paesaggistico ed all’estensione del suo contenuto, una recente ed autorevole giurisprudenza amministrativa ha chiarito che «il piano paesistico, non può che prendere atto di tutti i vincoli preesistenti o successivamente imposti, recependo le relative norme d’uso, di conservazione e ripristino, avendo la funzione di delineare gli ambiti in cui suddividere tutto il territorio regionale, e di definire prescrizioni e previsioni dirette alla conservazione degli elementi costitutivi e delle morfologie dei beni paesaggistici solo ove non già contenute negli atti di individuazione dei singoli beni soggetti a tutela del territorio».
La legislazione regionale, al di là della tipologia pianificatoria adottata, ha ampliato l’ambito di incidenza della disciplina oltre i confini ambientali. Con la conseguenza che i contenuti e le finalità di conservazione e valorizzazione hanno finito per caratterizzare ogni atto di pianificazione urbanistica. Tali aspetti sono stati richiamati dalla Corte Costituzionale, secondo cui il piano paesistico opererebbe con le tecniche e gli effetti propri dei piani urbanistici, ancorché risulti principalmente preordinato alla protezione dei valori estetico-culturali. Con la conseguenza che, da un lato, esso può estendersi ad aree non interessate dalla tutela del paesaggio, dall’altro, oltre a possedere l’efficacia propria del piano territoriale di coordinamento urbanistico, come tale destinato a orientare mediante direttive l’azione degli enti titolari di competenze urbanistiche, esprime, altresì, «una immediata operatività vincolante per i soggetti privati».
Il Codice ha innovato profondamente la disciplina. I principi fondamentali della materia sono contenuti negli articoli 135 e 143, secondo cui il piano paesaggistico, diversamente dal passato allorché la sua adozione era obbligatoria unicamente per i beni vincolati ex lege, può arrivare comprendere gran parte del territorio regionale e definire le trasformazioni compatibili, le azioni di recupero e di riqualificazione delle aree e gli interventi di valorizzazione. Alla stregua delle caratteristiche delle aree e del livello di integrità ambientale, il piano può suddividere il territorio regionale in ambiti omogenei, secondo una gradazione che comprende non solo le aree di elevato pregio paesaggistico, ma anche quelle compromesse o degradate, la cui reintegrazione può determinare la realizzazione di nuovi valori paesaggistici. Il piano attribuisce a ciascun ambito, secondo il valore paesaggistico riconosciuto nell’area, obiettivi di qualità paesaggistica con riguardo alla conservazione ambientale, alla previsione dello sviluppo urbanistico ed edilizio compatibile e alle attività di recupero e riqualificazione delle aree compromesse o degradate.
Il modello di pianificazione introdotto dal Codice risente dell’impostazione che è data all’intero sistema di tutela e valorizzazione dei beni paesaggistici ed alla nuova nozione di paesaggio che si è andata affermando nel nostro ordinamento. La circostanza per cui, nell’attuale nozione di paesaggio che viene mutuata dalla Convenzione europea e dalle posizioni di quella dottrina che vi ha identificato la «forma del territorio», questo deve intendersi non limitato ai soli contesti di valore estetico ma a tutti i territori espressivi dell’identità culturale, ha comportato la necessità di ripensare anche la pianificazione.
In particolare, alla tradizionale funzione di tutela statica dei beni paesaggistici deve affiancarsi una funzione di gestione dinamica di quelle ampie parti di territorio che, pur non presentando caratteristiche tali da imporre l’assoluta preservazione ed immodificabilità, pretendono tuttavia di essere trasformate tenendo conto della circostanza che fanno parte del paesaggio. Il rischio che si corre è però quello di trascurare le peculiarità di questa forma di pianificazione e di non valorizzare adeguatamente le specificità della materia. Ed è fondamentale l’azione che i soggetti svolgono nell’ambito della pianificazione, anche quando vi siano divergenze tra le Regioni ed il Ministero, affinché sia conservata l’integrità del paesaggio. In effetti, si sono presentati casi in cui, nell’ambito del distinto procedimento di pianificazione paesaggistica e nell’esercizio dei poteri che in tali casi la legge la legge attribuisce al Ministero, si è determinata una divergenza di valutazioni sulla conservazione di oggettivi valori insiti in specifiche aree e si è deciso di privilegiare scelte finalizzate alla gestione del territorio a fini di sviluppo edilizio ed urbanistico che è apparso oggettivamente incompatibile con la tutela di valori costituzionali primari. In questi casi, quando risulti impossibile realizzare una efficace azione condivisa, è stato ribadito e «fatto salvo il potere del Ministero, a norma dell’articolo 138 comma 3 del Codice, di imporre, previo parere della Regione, autonomi vincoli, se ciò è ritenuto necessario in rapporto alla messa in pericolo dei valori paesaggistici del territorio».
La legislazione vigente attribuisce al piano paesaggistico effetti di straordinaria portata, sino alla totale esclusione di qualsivoglia possibilità edificatoria: ciò rende l’idea di quale sia la capacità di influire sul diritto di proprietà, senza che la legislazione vigente preveda misure di indennizzo che soddisfino l’incidenza sul diritto. Di tale potere deve essere fatto un uso molto accorto. Se, infatti, i soggetti cui è affidata la competenza a dare luogo alla pianificazione la realizzassero in modo distratto e solo in funzione di tutela e non di complessiva gestione del territorio, tentando con essa di dare luogo ad un’analitica e particolareggiata individuazione di tutte la trasformazioni d’uso ammissibili, si tornerebbe ad una nozione di paesaggio statica, concepita in funzione della sola protezione e non della regolazione, con l’ulteriore negativa conseguenza di avere esteso l’immobilismo ad importanti segmenti di territori regionali.
Passando all’oggetto della pianificazione paesaggistica, esso è definito dall’articolo 135 del Codice, con una collocazione che assegna alla pianificazione un ruolo assolutamente primario. La pianificazione è un principio che informa l’intera azione amministrativa di tutela e valorizzazione del paesaggio, funzione essenziale nei diversi processi finalizzati al perseguimento degli obiettivi presupposti. Si osserva immediatamente che la pianificazione paesaggistica è suscettibile di interessare il territorio regionale nella sua interezza: «Lo Stato e le Regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono».
Alla luce dei limiti che avevano caratterizzato il T.U. del 1999, dove si era previsto un coordinamento tra le disposizioni previgenti in materia paesaggistica, le nuove norme rappresentano una novità di assoluto rilievo.
Con estrema riduttività, nel T.U. erano confluite le norme che obbligavano le Regioni a redigere piani territoriali paesistici o piani urbanistico-territoriali solo per i beni vincolati ope legis, a tenore dell’articolo 1-bis della legge Galasso, e di quelle contenute nell’articolo 5 della legge 1497/1939, che prevedevano la facoltà di sottoporre a pianificazione paesistica i complessi di cose immobili e le bellezze panoramiche che fossero stati oggetto di uno specifico provvedimento vincolativo. Di fatto, le diverse Regioni e lo stesso Ministero avevano incluso, nelle esperienze pianificatorie che hanno preceduto il Codice, tutte le aree tutelate. Del resto, l’introduzione dello strumento alternativo del piano urbanistico- territoriale aveva già reso possibile, anche prima dell’entrata in vigore del Codice, estendere tale forma di pianificazione anche negli ambiti di territorio non previamente assoggettati a tutela.
A seguito dell’entrata in vigore del Codice si è prodotto un effetto di particolare importanza, costituito dal fatto che l’elaborazione dei piani territoriali paesistici e dei piani urbanistico-territoriali è, per la prima volta, ricondotta a principi e a contenuti unitari, comuni a tutte le Regioni. Fermo restando che, a mente dell’articolo 144 del Codice, la Regione definisce le procedure approvative, disciplinando tutte le forme partecipative necessarie al fine di ottenere un piano paesaggistico condiviso e funzionale.
Viene, in tal modo, data omogeneità alla forma e ai contenuti degli strumenti di pianificazione presenti nelle diverse Regioni.
Quanto ai contenuti, il piano paesaggistico affianca, alle tradizionali finalità descrittive e prescrittive, contenuti propositivi attinenti agli interventi di recupero e di riqualificazione delle aree e all’individuazione delle misure necessarie al corretto inserimento degli interventi di trasformazione del territorio nel contesto paesaggistico. E ciò, prevedendo innovative forme di partecipazione da parte di soggetti portatori di interessi riconnessi alla tutela ed alla protezione del territorio.
In particolare, il contenuto che devono avere i nuovi piani paesaggistici risulta dal combinato disposto della parte finale dell’articolo 135 e della parte iniziale dell’articolo 143, il quale ultimo articolo contiene anche gran parte delle disposizioni sulle modalità di elaborazione del piano e sui passaggi dell’iter da seguire per la sua approvazione. La pianificazione paesaggistica individua differenti ambiti territoriali: da quelli che possiedono un pregio paesistico di notevole rilievo fino a quelli degradati che quindi necessitano di interventi di riqualificazione. Detti ambiti sono individuati con tecnica pianificatoria analoga alla zonizzazione tipica della pianificazione urbanistica e sono definiti in base ai loro aspetti e caratteri peculiari nonché alle loro caratteristiche paesaggistiche. L’articolo 135, comma 3 del Codice prevede che i piani predispongano specifiche normative d’uso e individuino adeguati obiettivi di qualità. Nell’impostazione codicistica, tuttavia, i più rilevanti contenuti del piano deriveranno più che dalla richiamata disposizione, dallo svolgimento delle attività indicate nell’articolo 143. La norma citata, che è stata oggetto di completa riscrittura da parte del d. lgs. 63/2008, descrive le diverse azioni con cui avviene l’elaborazione del piano paesistico. La formulazione del citato articolo 143 pone in risalto la funzione ricognitiva delle qualità specifiche del territorio oggetto di pianificazione, la quale avviene mediante l’analisi delle sue caratteristiche paesaggistiche, derivanti dall’azione della natura e dell’uomo, e delle interrelazioni tra il fattore naturale e quello storico; la ricognizione e la trasposizione all’interno del piano degli immobili e delle aree dichiarate di notevole interesse pubblico, ed infine, la ricognizione e la trasposizione delle aree tutelate per legge ex articolo 142, lettera c). A queste operazioni si aggiunge «l’eventuale individuazione di ulteriori immobili od aree, di notevole interesse pubblico a norma dell’articolo 134, comma 1, lettera c), la loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione». Questa elencazione rappresenta l’insieme dei beni che possono divenire oggetto di pianificazione paesaggistica, con l’ulteriore individuazione di eventuali altri contesti, diversi da quelli indicati all’articolo 134, che possono essere sottoposti a specifiche misure di salvaguardia ed utilizzazione, secondo le indicazioni di cui all’articolo 143, comma 1, lettera e).
Per il Codice, dunque, la prima attività da svolgere ai fini della predisposizione del piano paesaggistico è costituita dalla ricognizione dell’intero territorio, attraverso la ricostruzione della mappa dei vincoli esistenti e di quelli che con il piano si intende apporre. La più significativa novità introdotta con il secondo correttivo del 2008 è rappresentata dalla previsione per cui, in sede di ricognizione dei beni che sono sottoposti già a tutela, ed in quella di individuazione dei beni ulteriori che il piano intende vincolare, devono determinarsi anche le specifiche prescrizioni d’uso dei beni, a mente dell’articolo 138, comma 1. Si è notato che nella formulazione vigente, il rapporto tra vincolo e piano risulta articolato su basi nuove, per cui si fissa già con il vincolo una parte di territorio indeformabile, mentre con il piano si precisano e si dettagliano le prescrizioni, integrandole con i contenuti finalizzati alla valorizzazione del paesaggio ed alla riqualificazione dei contesti degradati. Non v’è dubbio, infatti, che le prescrizioni contenute nel vincolo mirino soprattutto alla tutela del paesaggio, mentre alla sua valorizzazione provveda, in via principale, il piano. Il vincolo, dunque, costituisce un elemento di forte condizionamento dell’attività pianificatoria, che, evidentemente, ponendosi in un momento temporale successivo all’apposizione del vincolo, vi risulta subordinata.
Si è già detto che il piano paesaggistico deve contemporaneamente assolvere a più funzioni, tra cui spicca, per rilevanza, quella rivolta alla accurata ricognizione del territorio vincolato ed alla individuazione di ulteriori immobili ed aree specificamente individuati a norma dell’articolo 136 del Codice e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici previsti dagli articoli 143 e 156. Tale necessaria funzione ricognitiva, che caratterizza la fase iniziale della predisposizione del piano paesaggistico vale a definire l’estensione dell’ambito oggetto di considerazione da parte del piano e, quindi, l’estensione del piano medesimo.
Dunque, i beni alla cui ricognizione ed individuazione il piano deve procedere ai sensi dell’articolo 143, comma 1, lettere b), c) e d) corrispondono esattamente a tutti i beni paesaggistici elencati dall’articolo 134.
La disposizione dell’articolo 143, comma 1 lettera e), stabilisce, poi, che nell’elaborazione del piano si possono individuare eventuali, ulteriori contesti, diversi da quelli indicati all’articolo 134, da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia e di utilizzazione. Sulla natura di questi beni si sono avanzati dei dubbi con riferimento alla loro collocazione.
All’esito dell’attività di ricognizione del territorio oggetto di pianificazione, che costituisce la base da cui partire per procedere alla formazione del piano, si passa all’analisi del territorio che deve avere quale obiettivo quello di individuare i fattori di rischio o degli elementi di vulnerabilità in esso presenti e, successivamente, al raffronto con gli altri atti di programmazione, di pianificazione del territorio e di difesa del suolo che già insistono sull’area. La fase successiva, che si concreta nell’individuazione delle misure di tutela e valorizzazione, appare di fondamentale importanza. Nello specifico, essa avviene con l’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree compromesse o degradate e degli altri interventi di valorizzazione compatibili con le esigenze della tutela, e con l’individuazione delle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio, al fine di realizzare uno sviluppo sostenibile delle aree interessate, nonché, infine, con l’individuazione dei diversi ambiti e dei relativi obiettivi di qualità paesaggistica. La previsione che il piano debba avere questi contenuti è rivolta alla predefinizione del contenuto delle decisioni che le amministrazioni chiamate alla gestione del paesaggio dovranno assumere. In tal modo si è voluto porre un limite all’eccesso di discrezionalità che inevitabilmente avrebbe caratterizzato la valutazione delle richieste di autorizzazione paesaggistica, consentendo altresì al piano di assolvere alla primaria esigenza di controllo e di programmazione.
Questi sono, peraltro, i contenuti del piano che determinano i rapporti che dovranno intercorrere tra esso e gli altri strumenti di pianificazione e gestione del territorio, che sono caratterizzati dalla supremazia e primarietà del piano paesaggistico che indirizza tanto la pianificazione di recupero che la ordinaria pianificazione urbanistica.
L’articolo 135 del Codice dispone che «lo Stato e le Regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente tutelato, gestito e valorizzato in ragione dei differenti valori espressi dai contesti che lo costituiscono, attraverso l’approvazione dei piani paesaggistici».
Sotto il profilo del procedimento di formazione dei piani paesistici, dunque, la norma contenuta nell’articolo 143, in applicazione dei principi di cui all’articolo 132, prevede la possibilità che il piano costituisca il frutto di un accordo tra la Regione, il Ministero per le Attività ed i Beni Culturali e il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio.
L’accordo deve stabilire, altresì, i presupposti, le modalità e i tempi per la revisione periodica del piano.
La natura apicale del piano paesaggistico e la varietà dei suoi contenuti spiegano la sovraordinazione e la preminenza dal piano paesaggistico rispetto agli altri strumenti di pianificazione territoriale. Secondo quanto previsto dalla disposizione dell’articolo 145, infatti, le previsioni contenute nel piano sono cogenti per i piani urbanistici degli enti territoriali, stabiliscono norme di salvaguardia in attesa del loro adeguamento, e sono sempre prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione e sugli altri progetti di sviluppo comunque incidenti sul paesaggio.
Le Regioni, in passato e sino all’emanazione del Codice, avevano in realtà definito una sequenza procedimentale in tutto analoga a quella prevista per l’approvazione degli altri strumenti di pianificazione, caratterizzata da: predisposizione da parte degli uffici dell’amministrazione regionale o eventuale affidamento dell’incarico a terzi di predisporre lo schema di piano; adozione dello strumento con delibera di Giunta regionale, sentiti, eventualmente, ove esistenti, gli organi di consulenza tecnica in materia di pianificazione urbanistico-territoriale; pubblicazione della delibera di adozione e degli allegati alla stessa e adozione delle ulteriori forme di pubblicità previste dalla normativa regionale; ricezione delle osservazioni presentate nei confronti del piano adottato con esame delle controdeduzioni alle stesse; approvazione finale del piano da parte del Consiglio regionale e sua definitiva pubblicazione. Su questa prassi il Codice è intervenuto in modo molto invasivo, prevedendo la necessità di un intervento legislativo di adeguamento attraverso l’articolo 144, comma 1, dove è prescritto che «le Regioni disciplinano mediante apposite norme di legge i procedimenti di pianificazione paesaggistica».
Questo dato conferma che in tema di pianificazione paesaggistica anche il Codice riserva al legislatore regionale una competenza ampia, e ribadisce la necessità di considerare il paesaggio come materia «trasversale», oggetto di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni. In considerazione di ciò, la legislazione regionale che darà attuazione al Codice, dovrà tenere presenti i seguenti principi fissati dalla normativa statale in tema di procedure di formazione dei piani paesaggistici.
Invero, le Regioni che stipuleranno accordi per l’elaborazione d’intesa dei piani paesaggistici con il Ministero per i beni e le attività culturali, e con il Dicastero dell’ambiente e della tutela del territorio, potranno accedere alle disposizioni premiali ed alle semplificazioni procedimentali previste dai commi 4 e ss. dell’articolo 143.
Le ulteriori disposizioni del Codice in materia di procedure per l’approvazione dei piani paesaggistici sono dettate dai due commi dell’articolo 144, rubricato «pubblicità e partecipazione».
Così, nei procedimenti di approvazione dei piani paesaggistici devono essere assicurate da parte delle Regioni, in sede di fissazione della relativa disciplina, la concertazione istituzionale, la partecipazione dei soggetti interessati e delle Associazioni costituite per la tutela degli interessi diffusi, individuate ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di ambiente e danno ambientale, e ampie forme di pubblicità.
La pianificazione paesaggistica diviene il passaggio obbligatorio essenziale per la conservazione, la pianificazione e la gestione del paesaggio, con estensione di essa a tutto il territorio regionale, con la previsione di diverse graduazioni di tutela in relazione alla ricognizione dei valori paesaggistici e alla conseguente assegnazione di obiettivi di qualità paesistica, nonché di interventi di recupero nelle aree degradate, così come vuole la Convenzione europea.
Pertanto, il nuovo punto di equilibrio tra vincoli e pianificazione dovrà essere raggiunto progressivamente e senza traumi per la tutela del paesaggio, attraverso un meccanismo di revisione e di adeguamento dei piani esistenti.


Il procedimento di individuazione dei beni paesaggistici: il vincolo


Sin dalla approvazione delle prime leggi che tendevano a proteggere il paesaggio, il provvedimento attraverso il quale si attuava la protezione veniva messo al centro di tutta l’azione rivolta alla sua tutela, quale presupposto essenziale affinché potessero essere esercitate sul bene oggetto di considerazione paesaggistica le principali funzioni attribuite all’amministrazione. Tra l’altro, esse sono costituite dalla obbligatoria preventiva valutazione di ogni progetto di modifica dei beni vincolati, dalla facoltativa predisposizione, con riferimento alle vaste località sottoposte a protezione, di un piano territoriale paesistico «al fine di impedire che le aree di quelle località siano utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica», e dalla eventuale applicazione delle misure sanzionatorie in ipotesi di violazione della normativa di tutela.
In assenza di un espresso provvedimento vincolativo potevano essere unicamente emanati atti di inibizione della prosecuzione dei lavori capaci di arrecare pregiudizio allo stato esteriore delle cose ed alle località meritevoli di tutela, ma non ancora sottoposte a vincolo. Questi rimedi, peraltro, apparivano privi della stabilità necessaria a raggiungere gli scopi prefissati, la cui efficacia era destinata a venire meno se entro tre mesi dall’emanazione del provvedimento di cautela la Commissione competente non avesse dichiarato l’interesse pubblico del bene oggetto di modifiche.
Nella legge 1497/1939, dunque, la previa emanazione di un provvedimento che dichiarasse il valore estetico del bene costituiva condicio sine qua non per l’esercizio di qualsiasi funzione pubblica di salvaguardia delle bellezze naturali. Del resto, queste modalità di apposizione del vincolo non sono venute meno con le successive evoluzioni normative che hanno investito la materia, essendo esse state riprese tanto dal T.U. del 1999, quanto, seppure con degli aggiustamenti, dal Codice.
Il riconoscimento del valore paesaggistico di un determinato bene deve passare attraverso la dichiarazione che a quel bene, per le caratteristiche di cui è dotato, va conferito il «notevole interesse pubblico», poiché preesiste un interesse generale dei consociati affinché a quel bene venga riservata una disciplina particolare, dettata dall’ordinamento, in grado di assicurare al bene una tutela che può essere garantita solo con l’apposizione di uno speciale vincolo. Il vincolo si atteggia non solo come strumento di protezione del bene, ma costituisce anche il risultato delle operazioni rivolte alla valutazione ed alla individuazione delle caratteristiche di un bene preordinate al suo inserimento nel novero dei beni paesaggistici.
In sintesi, il vincolo è il dispositivo con cui si realizzano la tutela e la protezione del bene paesaggistico.
Naturalmente è la legge che definisce i criteri e le procedure attraverso cui deve avvenire l’individuazione dei beni paesaggistici.
L’articolo 1 della legge 1497/1939 individuava quattro tipologie di bellezze naturali da sottoporre a protezione, a mezzo di espresso provvedimento vincolativo, in ragione del loro notevole interesse pubblico. Le prime due hanno mantenuto la denominazione di bellezze individue mentre le ultime due erano definite bellezze d’insieme. Esse si distinguevano, oltre che per le loro caratteristiche intrinseche, anche per il procedimento di individuazione. Nell’esegesi proposta nel corso degli anni dalla giurisprudenza, è stato efficacemente affermato che «il vincolo di insieme non implica che ogni singolo elemento abbia i caratteri di bellezza naturale, dovendo una siffatta qualificazione discendere da caratteristiche di pregio intrinseche al bene stesso». E benvero, all’interno di una bellezza d’insieme possono insistere anche più bellezze individue, sennonché, ai fini della loro elevazione a bellezza d’insieme deve emergere non tanto il loro pregio estetico particolare, quanto il fatto di contribuire a determinare l’aspetto esteriore dell’intero complesso.
Trattandosi di beni che possono essere sottoposti a tutela in modo del tutto indipendente, se ne è dedotta la conseguenza che «le due forme di tutela possono coincidere, nel senso che la tutela di un insieme non esclude la possibilità di imporre vincoli a singole cose, quali bellezze individue, con un regime più rigoroso in ordine alla loro modificabilità, dovendosene preservare il pregio intrinseco e non quello che nasce dalla loro reciproca relazione».
In ogni caso, con riguardo alle dette categorie di beni, la delimitazione dei confini della zona da sottoporre a vincolo paesaggistico costituisce tipica espressione di discrezionalità tecnica, non sindacabile in sede di giudizio di legittimità se non sotto il profilo dell’evidente arbitrarietà e illogicità della scelta operata.
In base alla legge 1497/1939, le bellezze di insieme erano:
-le cose immobili aventi cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; da questa definizione è stato coniato il concetto di «monumento naturale» che è stato poi trasposto nella normativa in materia di tutela della aree naturali protette;
-le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguano per la loro non comune bellezza. Il problema posto con riguardo al discrimine che andava tracciato rispetto alle ville, i parchi ed i giardini di interesse storico o artistico nominati dalla precedente legge 1089/1939 fu risolto attribuendo prevalenza ai valori della naturalità rispetto a quelli di rilievo storico o artistico che devono ricorrere ai fini dell’ascrizione del bene nella categoria in esame.
Fermo restando che deve comunque trattarsi di beni naturali caratterizzati dalla non comune bellezza. È evidente che la scelta rientra nell’ambito delle decisioni tecnico-discrezionali, che mal si prestano a scelte predeterminate;
-i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale. In questa categoria di beni si trova principalmente espressa la teoria che vede nelle bellezze naturali il frutto coordinato ed incessante dell’espressione spontanea della natura e dell’azione consapevole dell’uomo. Si noti che già emergeva come nell’analisi dei presupposti per l’assoggettamento di un complesso di beni a tutela entravano in gioco con funzione primaria, criteri ulteriori rispetto alla stima del mero valore estetico dei beni. In tale prospettiva si aprì alla tutela dei centri storici, o, in taluni altri casi di interi territori comunali, sotto lo specifico profilo del loro rilievo estetico-ambientale. Vero è, del resto, che anche in presenza di una seria compromissione della bellezza naturale ad opera di preesistenti opere, questo non deve impedire ed, anzi, maggiormente richiede che ulteriori realizzazioni non espongano ad ulteriore pregiudizio le aree protette;
-le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.
Questa ultima categoria di beni presa a suo tempo in considerazione dalla legge 1497/1939, e puntualmente riproposta dai compilatori del Codice, i quali hanno eliminato il solo riferimento ai «quadri naturali» ricomprendeva al suo interno due distinte ipotesi:
le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali ed i punti di vista o di belvedere, che siano accessibili al pubblico, dai quali si possa godere lo spettacolo di quelle bellezze. È stato, peraltro, chiarito al riguardo che quando si individua un quadro naturale costituente bellezza panoramica, facendo riferimento a ben individuati aspetti morfologici, monumentali e culturali di un determinato contesto territoriale, tra loro armonicamente integrati, l’estensione del vincolo gravante su tale territorio non può essere giustificata in relazione ad aree che non presentino traccia dei caratteri indicati, dei quali l’amministrazione assume la tutela, e che già denotano una natura articolata e complessa, anche quanto ad estensione, dell’ambito sottoposto a vincolo, salvo il fatto, che trattandosi di una bellezza panoramica, l’area estranea alle caratteristiche di bellezza specificate, si ponga in un rapporto con queste ultime riconducibile alla visibilità, cioè alla percezione dell’insieme connessa ai punti di vista e al belvedere, ai quali, per completezza logica, fa riferimento la norma di cui all’articolo 1, n. 4 della legge 1497/1939.
Del resto, come ha rilevato la giurisprudenza amministrativa, l’imposizione del vincolo non è subordinata all’esistenza di punti di vista dei quali si possa godere la bellezza panoramica perché la legge tutela anche le cose che costituiscono in sé bellezza panoramica e il godimento estetico può ricavarsi anche stando all’interno del quadro naturale.
È interessante notare che le previgenti norme in tema di vincolo prendevano sì in considerazione il loro pregio estetico, ma non mancavano di valutare anche altri elementi ai fini della loro tutela. Va posto in evidenza il criterio «scientifico», in riferimento alle singolarità geologiche; il criterio «storico-sociale», il quale interviene nella qualificazione dei complessi aventi valore estetico e tradizionale; il criterio della fruibilità pubblica, il quale agisce in rapporto alle bellezze panoramiche, da proteggere in quanto si possono godere da punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico. Infine, oggetto di vincolo possono diventare anche tutti quei beni che hanno acquisito nel corso del tempo un particolare pregio grazie all’intervento dell’azione dell’uomo.
Per la sottoposizione a tutela delle “bellezze naturali” il Codice prevede una articolata procedura, radicalmente innovata rispetto a quella del regime previgente. La principale innovazione è consistita nell’abbandono del sistema dei due distinti elenchi, uno per le bellezze individue, l’altro per le bellezze d’insieme. Il T.U. del 1999, attesa la sua natura prettamente compilativa e pedissequa, propria dei testi unici, aveva recepito integralmente le statuizioni della legge 1497/1939. Tuttavia il sistema aveva prestato il fianco a notevoli problemi, soprattutto con riferimento alle modalità di composizione e convocazione delle commissioni provinciali che ciascuna Regione aveva l’obbligo di istituire. Spesso erano mancate poi le norme regionali che, ad integrazione delle corrispondenti disposizioni dettate a livello statale, dovevano precisare chi fossero i componenti della commissione di nomina regionale, quali fossero le modalità di funzionamento delle stesse ed in che modo e con quali limiti potessero e dovessero partecipare alle riunioni della commissione i rappresentanti degli enti locali.
Con il Codice e le sue successive integrazioni e modifiche si è tentato di superare questa apparente farraginosità delle procedure, nella direzione di una progressiva riaffermazione delle attribuzioni statali, attraverso il Ministero. Questo obiettivo si evince dalla relazione illustrativa al d. lgs. 63/2008, in cui le modifiche introdotte si rivolgono nella direzione di «riconoscere espressamente e disciplinare il potere dello Stato di proporre vincoli paesaggistici, indipendentemente dal concomitante esercizio della medesima attività da parte delle Regioni».


La dichiarazione di notevole interesse pubblico


L’articolo 137 del Codice prevede le procedure di individuazione dei beni paesaggistici, definisce le competenze e determina le modalità di composizione della commissione cui è attribuito il compito di formulare le proposte per la dichiarazione del notevole interesse pubblico. Nella versione originaria del Codice, di tale commissione costituita su base provinciale, dovevano far parte, oltre ad alcuni componenti di nomina o di estrazione regionale, il Soprintendente regionale, il Soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio ed il Soprintendente per i beni archeologici, chiarendosi che l’apporto che potevano dare i rappresentanti degli enti locali si limitava alla loro obbligatoria audizione.
Le successive versioni del Codice hanno soppresso l’obbligo di costituire una commissione per ogni Provincia, demandando alle Regioni la scelta se istituire una o più commissioni in ambito regionale. Le ulteriori correzioni apportate all’articolo 137 del Codice sono state intese, da una parte, a coinvolgere istituzioni universitarie, fondazioni aventi per statuto finalità di promozione del patrimonio culturale (come, ad es., il F.A.I, A.D.S.I., l’Associazione Ville Venete, ecc.) e Associazioni portatrici di interessi diffusi individuate ai sensi delle vigenti disposizioni di legge in materia di ambiente e danno ambientale nella scelta dei componenti delle commissioni; dall’altra, a rendere più stringente l’obbligo delle Regioni, nel costituire le commissioni cui affidare il compito di formulare le proposte di dichiarazione, a scegliere i componenti di dette commissioni nell’ambito delle terne designate dalle Università, dalle istituzioni aventi come fine statutario la tutela del paesaggio, e dalle Associazioni individuate dalle vigenti disposizioni in materia di tutela dell’ambiente.
L’articolo 137 del Codice specifica che la commissione può «formulare proposte per la dichiarazione di interesse pubblico degli immobili indicati alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 136 e delle aree indicate alle lettere c) e d) del comma 1 del medesimo articolo 136». In ciò consiste la principale novità nel procedimento di sottoposizione a tutela delle «bellezze naturali».
Sulla base della disciplina vigente, il procedimento amministrativo volto alla dichiarazione del notevole interesse pubblico dei beni paesaggistici di cui all’articolo 136 del Codice viene avviato su impulso di uno dei componenti, di parte ministeriale o regionale, ovvero su iniziativa di uno degli enti pubblici territoriali interessati.
Diversamente da quanto avveniva in precedenza, risulta accentuato il ruolo statale, posto che l’iniziativa per la sottoposizione a tutela dei beni paesaggistici di cui al richiamato articolo 136 può autonomamente aversi tanto da parte dei componenti di provenienza regionale quanto di quelli di parte ministeriale. In precedenza l’intervento statale era previsto come solo residuale e conseguente all’ipotesi di inerzia della commissione.
La valutazione sulla sussistenza del notevole interesse pubblico dei beni viene effettuata dalla commissione, la quale, dopo aver acquisito le necessarie informazioni attraverso le Soprintendenze e gli uffici regionali e provinciali, e dopo aver consultato obbligatoriamente tutti i Comuni interessati ed ascoltato facoltativamente esperti della materia, formula la proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico paesaggistico.
La proposta viene formulata tenendo conto dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici espressi dagli aspetti e caratteri peculiari degli immobili o delle aree considerati, della loro valenza identitaria in rapporto al territorio in cui ricadono ed alla eccezionalità delle caratteristiche di omogeneità del territorio considerato. Per la giurisprudenza amministrativa «queste caratteristiche dovrebbero oggettivamente sussistere per tutte le parti in cui si articola il comprensorio preso in considerazione con la conseguenza che il regime vincolistico non potrebbe essere applicato sulla base di un mero rapporto di contiguità o interclusione dell’area rispetto ai terreni in cui si articola il comprensorio».
Nello svolgimento dell’attività istruttoria diretta alla formulazione della proposta, ed in particolare nelle selezione e valutazione dei documenti e delle ulteriori risultanze, indagini e studi finalizzati all’apprezzamento dell’interesse del bene, la commissione agisce con assoluta discrezionalità. L’ampio margine di libertà di cui dispone la commissione nello svolgimento dell’istruttoria rafforza l’obbligo motivazionale che connota la fase successiva di emanazione del provvedimento vincolativo. In tale fase del procedimento, l’amministrazione procede ad un’attività conoscitiva delle caratteristiche e delle specifiche connotazioni del bene o del complesso dei beni da sottoporre a tutela. Ed il legislatore, al fine di non disperdere le informazioni raccolte dalla commissione le richiede di formulare, unitamente alla proposta di dichiarazione, anche le proposte per le prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei valori espressi. Tali proposte rappresentano le più significative innovazioni apportate dal Codice all’intera disciplina di tutela e valorizzazione dei beni paesaggistici.
Ed è evidente come l’acquisizione di queste informazioni avrà un grande valore ai fini della predisposizione dello specifico regime di tutela che il piano si proporrà di attuare.
Terminata la fase che si conclude con la formulazione della proposta, l’amministrazione ha l’obbligo di pubblicare, per 90 giorni, nell’albo pretorio dei Comuni interessati e di mettere a disposizione del pubblico, mediante deposito presso gli uffici dei Comuni medesimi, tutte le proposte di dichiarazione aventi ad oggetto i beni di cui all’articolo 136, sia che si tratti di bellezze d’insieme, sia che si tratti di bellezze individue.
La pubblicazione assolve alla funzione di rendere conoscibile la proposta di apposizione del vincolo e rendere così possibile la presentazione di osservazioni.
Dell’avvenuta formulazione della proposta e della relativa pubblicazione deve, altresì, essere data immediata notizia su almeno due quotidiani a diffusione regionale, nonché su un quotidiano a diffusione nazionale e sui siti informatici della Regione e degli altri enti pubblici territoriali nel cui ambito ricadono gli immobili o le aree da assoggettare a tutela.
Nel caso in cui la proposta abbia ad oggetto una delle bellezze individue di cui agli articoli 136, lettere a) e b), la comunicazione dell’avvio del procedimento di dichiarazione deve essere data anche al proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo del bene.
La comunicazione deve contenere i dati catastali idonei ad identificare l’immobile e la proposta formulata dalla commissione. La comunicazione ai titolari di diritti reali sugli immobili interessati avrà, quindi, un contenuto più dettagliato rispetto a quello della pubblicazione.
La proposta deve essere comunicata anche alla Città metropolitana, ove istituita, ed alla Provincia interessata. Nel silenzio del Codice sulla competenza ad eseguire i predetti oneri di pubblicità, deve ritenersi che essi competano agli stessi organi che hanno proceduto all’individuazione dei beni: alla commissione regionale, dunque, ovvero al diverso organo cui la Regione, nell’esercizio delle proprie autonome attribuzioni in materia di organizzazione dei suoi uffici, abbia espressamente attribuito tale competenza.
Viene fatta peraltro salva l’ipotesi in cui sia il Ministero dei beni culturali ad esercitare il potere di dichiarare il notevole interesse pubblico di un bene a norma dell’articolo 138 comma 3 del Codice: in tale ipotesi tutti gli incombenti relativi alla formulazione, pubblicazione e comunicazione della proposta graveranno sulle articolazioni del detto Ministero. Invero, il legislatore, all’originario esclusivo potere regionale di riconoscere il notevole interesse pubblico di immobili ed aree da sottoporre a tutela, in quanto riconosciuti beni paesaggistici previo apposito procedimento, ha accostato, facendola espressamente salva, la “potestà esclusiva” dello Stato, a sua volta esercitabile previo procedimento, sia pure differenziato nelle modalità di avvio e di partecipazione sia della Regione che dei Comuni.
La legge sul procedimento amministrativo impone che la proposta sia compiutamente motivata in ordine alle specifiche caratteristiche storiche, culturali, naturali, morfologiche ed estetiche dell’immobile o dell’area da sottoporre a vincolo e sulla loro valenza identitaria in rapporto al territorio in cui ricadono. La giustizia amministrativa ha imposto questi oneri motivazionali al fine di spiegare le ragioni per cui si propone l’assoggettamento a vincolo e si rende necessario il correlativo sacrificio imposto al privato, consentendogli di partecipare utilmente al relativo procedimento.
Nei 30 giorni successivi all’avvenuta pubblicazione nell’albo pretorio della proposta della commissione, i Comuni, le Città metropolitane, le Province, le Associazioni portatrici di interessi diffusi, nonché tutti gli altri soggetti pubblici e privati interessati potranno presentare osservazioni alla Regione, che ha altresì facoltà di indire un’inchiesta pubblica. Nel caso delle bellezze individue, il termine per la presentazione delle osservazioni da parte di proprietari, possessori o detentori del bene decorre dal compimento dell’ultimo degli adempimenti previsti.
Il termine per la presentazione di tali osservazioni è stato portato a 30 giorni nell’ultima versione del Codice, con l’evidente scopo di velocizzare la conclusione del procedimento. È tuttavia auspicabile che tale ristrettezza di tempi non costituisca una limitazione della facoltà di partecipazione degli interessati, soprattutto quando si tratti di analizzare aree dalla struttura complessa e disomogenea.
Il Codice vigente si caratterizza per aver unificato le procedure di dichiarazione dell’interesse pubblico delle varie tipologie di bellezza naturale.
L’odierna procedura prevede, tanto per le bellezze individue che per le bellezze d’insieme, che, esaurita la fase di valutazione delle osservazioni, ed eventualmente esperita l’inchiesta pubblica, la Regione emani il provvedimento relativo alla dichiarazione del notevole interesse pubblico degli immobili oggetto di proposta. La dichiarazione deve essere pubblicata dalla Regione sulla base della proposta formulata dalla commissione e, quindi, senza che vi sia la possibilità di introdurre sostanziali modifiche rispetto alla precedente fase istruttoria. Nello specifico, si ritiene che la Regione non possa estendere i confini dell’area e assoggettare a tutela i beni che non vi siano stati ricompresi attraverso la proposta. Risulta soddisfatta, così, l’esigenza di garantire la partecipazione al procedimento da parte degli interessati, che, diversamente sarebbe venuta meno. Nel contempo viene assicurata l’osservanza delle modulazioni che la legge ha previsto perché si possa giungere alla dichiarazione.
L’articolo 140 del Codice prevede che la dichiarazione di notevole interesse pubblico deve essere emanata entro 60 giorni dalla scadenza del termine ultimo per la ricezione delle osservazioni che i vari soggetti coinvolti possono presentare avverso la proposta.
A causa degli effetti che possono prodursi sull’efficacia del procedimento, ci si è chiesto se il termine predetto debba considerarsi perentorio od ordinatorio. Cioè a dire, se decorso il prescritto termine di 60 giorni, la Regione perda il potere di procedere alla dichiarazione. Sulla scorta dell’uniforme giurisprudenza amministrativa si è ritenuto che detto termine sia da ritenere ordinatorio, e che pertanto l’amministrazione regionale conservi il potere di concludere il procedimento di dichiarazione dell’interesse pubblico dei beni paesaggistici di cui all’articolo 136 anche oltre il termine fissato per la sua emanazione dall’articolo 140 del Codice, fermi restando, naturalmente tutti gli obblighi da parte dell’amministrazione di pubblicizzare l’avvio del procedimento nei confronti dei soggetti a qualsiasi titolo interessati.
L’altra questione che è stata oggetto di dubbio da parte degli interpreti riguarda la durata dell’obbligo di sottoporre ad autorizzazione ogni intervento nelle more del definitivo perfezionamento del procedimento dichiarativo, che si rinviene dalla lettura degli articoli 139, commi 2 e 4, e dell’articolo 146, comma 1, e se tale obbligo permanga anche oltre il termine stabilito per l’emanazione del provvedimento dichiarativo. La questione è stata risolta in senso negativo, poiché non si giustificherebbe l’anticipazione degli effetti di un procedimento amministrativo che non è stato concluso.
Ogni dichiarazione di interesse pubblico, tanto delle bellezze d’insieme quanto delle bellezze individue, deve essere pubblicata, per essere efficace, sia nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana che nel Bollettino ufficiale della Regione. Si ritiene che il difetto delle prescritte formalità impedisca il perfezionamento e l’efficacia del provvedimento.
È interessante notare che il contenuto della dichiarazione di notevole interesse pubblico deve includere la «specifica disciplina intesa ad assicurare la conservazione dei valori espressi dagli aspetti e caratteri peculiari del territorio considerato» e che essa costituisce «parte integrante del piano e non è suscettibile di rimozioni o modifiche nel corso del procedimento di redazione del piano medesimo».
L’intenzione sottesa alle dichiarazioni del legislatore va nella direzione di costituire un sistema di tutela integrato tra vincolo e piano, attribuendo al provvedimento di vincolo una maggiore specificità e completezza. L’opportunità del sistema così configurato è immediatamente tangibile laddove si consideri che all’interno del previgente assetto il contenuto dei provvedimenti di vincolo era così generico che la gestione della tutela paesaggistica era affidata in modo quasi totale, ed a volte arbitrario, all’autorità preposta al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche.
È stato di contro notato che «il rischio insito nella più recente scelta legislativa è quello di vincolare eccessivamente la pianificazione in ragione dell’innata tendenziale maggiore rigidità che connota l’attività di imposizione dei vincoli rispetto alla maggiore flessibilità che è connaturata, invece, all’attività di pianificazione in cui, anche per la sequenza procedimentale che ne contraddistingue l’esercizio, si tende inevitabilmente alla ricerca di soluzioni che rendano il piano paesaggistico non uno strumento imposto e calato dall’alto ma un atto di pianificazione condiviso con le comunità e gli altri enti rappresentativi dei vari interessi che si muovono sul territorio».
Al riguardo il Consiglio di Stato ha ricordato come il piano paesaggistico possa qualificare direttamente come beni paesaggistici aree distinte da quelle dichiarate tali in via amministrativa (sulle quali sia stato apposto un vincolo provvedimentale) o ex lege (in quanto ricomprese nei c.d. beni diffusi), il cui valore specifico da tutelare sia dato da caratteri simili o di analogo fondamento, e il cui effetto ricognitivo sia quello proprio di quei vincoli paesaggistici, cui si deve aggiungere un contenuto prescrittivo, posto dal piano stesso contestualmente alla loro individuazione.
Anche questa recentissima pronuncia del giudice amministrativo di secondo grado conferma come le potenzialità conformative del piano paesistico siano molto forti, e vadano integrate con le connesse attività prescrittive svolte dalle amministrazioni competenti, quando si tratta di apporre discipline vincolistiche a determinati territori.
Nel sistema precedente all’entrata in vigore del Codice, lo Stato deteneva il potere di integrare gli elenchi delle bellezze naturali. Tale potestà, che trovava il suo fondamento giuridico nell’articolo 82 del d.p.r. n. 616/1977, veniva condivisa, secondo costante giurisprudenza, con quella concorrente delle Regioni. L’abbandono del sistema degli elenchi ha indotto il legislatore a fondare il potere statale di intervento nei processi di individuazione dei beni paesaggistici su nuove e diverse basi.
Così, il Codice all’articolo 138, comma 3 ha introdotto un potere autonomo del Ministero di dichiarare, su proposta motivata del Soprintendente, il notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree di cui all’articolo 136 del Codice medesimo. Il potere ministeriale di cui si è detto può essere esercitato in ogni ipotesi in cui l’amministrazione statale lo ritenga opportuno. Questo apparente ed incondizionato potere, conosce un’unica limitazione, costituita dalla necessaria richiesta del «parere della Regione interessata che deve essere motivatamente espresso entro e non oltre 30 giorni dalla richiesta». È evidente che in assenza del parere il Ministero potrà procedere comunque alla dichiarazione. Ciò attribuisce al parere regionale la natura di atto obbligatorio ma non vincolante. Tale potere attribuito al Ministero non è stato considerato invasivo delle competenze della Regione e del Comune, sebbene sia rimasta invariata l’obbligatorietà della comunicazione agli interessati ed alle amministrazioni locali della inclusione del bene tra quelli di notevole interesse pubblico paesaggistico, con sostanziale definitiva attribuzione in esclusiva del detto potere al Ministero.
Si noti che nella disciplina attuale, il Ministero provvede, direttamente o per mezzo dei suoi organi periferici, a tutti gli adempimenti necessari per addivenire alla dichiarazione, in forza di una espressa disposizione normativa voluta dal legislatore del Codice.
Questo nuovo assetto pare rientrare in quel complesso sistema di accorgimenti che tendono ad accentrare nuovamente i poteri statali relativi alla tutela dei beni paesaggistici.
L’articolo 136 del Codice come modificato dal d. lgs. 63/2008 si atteggia come una norma di chiusura del sistema posta a garanzia di una tutela effettiva del paesaggio come valore costituzionale, nel momento in cui si è modificato il procedimento di dichiarazione del notevole interesse pubblico. Ma, come emerge chiaramente dal dato testuale dell’articolo 136, che non prevede limiti di intervento, non si tratta di una potestà né concorrente, né sussidiaria e né suppletiva, ma di uno speciale ed autonomo potere-dovere d’intervento che l’ordinamento giuridico ha approntato quando, sulla base di valutazioni assolutamente discrezionali, possa essere concretamente a rischio l’interesse costituzionalmente affidato allo Stato. Ed è significativo che il legislatore abbia introdotto tale modifica in aggiunta al già disciplinato potere sostitutivo in materia di pianificazione paesaggistica, disciplinato dagli articoli 156, comma 3, e 143, comma 2. Si è voluta in tal modo ribadire la coesistenza di un duplice e distinto potere attribuito all’amministrazione centrale, il primo spettantegli in via diretta sulla base di principi costituzionali ed il secondo, funzionale alla valorizzazione del paesaggio, in via sostitutiva.
La legge 8 agosto 1985, n. 431, introdusse nel nostro impianto legislativo un principio generale di protezione, assente nella legge 1497/1939, in base al quale una serie di beni possono essere sottoposti a tutela paesaggistica, con il consequenziale obbligo di essere regolati all’interno del pertinente piano, anche in assenza della loro individuazione per mezzo dello specifico provvedimento amministrativo.
Per completezza, pare utile elencare i beni che la legge considera di particolare interesse pubblico paesaggistico: i territori costieri; i territori contermini ai laghi entro 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare; i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti negli elenchi delle acque pubbliche, e le relative sponde o argini per una fascia di 150 metri ciascuna; le montagne superiori a 1.600 metri per la catena alpina e 1.200 metri per la catena appenninica e per le isole; i ghiacciai e i circhi glaciali; i parchi e le riserve nazionali o regionali; i territori coperti da foreste o da boschi; le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici; le zone umide di cui alla Convenzione di Ramsar recepita con d.p.r. n. 448/1976; i vulcani; le zone di interesse archeologico.
Con la legge Galasso, dunque, tutti i beni ed i siti che avevano quelle caratteristiche venivano automaticamente assoggettati a vincolo.
L’introduzione della legge del 1985 determinò tutta una serie di ricorsi da parte delle Regioni, che avrebbero voluto custodire gelosamente la competenza in materia di pianificazione dei rispettivi territori, e che consideravano le legge Galasso gravemente lesiva delle loro prerogative e, comunque, illegittima per contrasto con la Costituzione.
I vari giudizi approdarono dinanzi alla Corte Costituzionale, la quale rese alcune importantissime pronunce sul punto. La Consulta riconobbe, infatti, la portata di grande riforma economico-sociale insito nella legge Galasso, in considerazione della nuova concezione di tutela paesaggistica da essa inaugurata. Inoltre si affermò la primarietà dell’interesse paesistico-ambientale e l’insuscettibilità dello stesso di essere subordinato ad altri interessi, quantunque pubblici.
La tutela così introdotta si mostrava radicalmente differente rispetto a quella del 1939.
I beni oggetto della nuova disciplina sono individuati sulla base della legge, e non attraverso un complesso procedimento amministrativo. Oggetto del vincolo non sono più beni o multiformi beni specificamente individuati, ma categorie elencate in base alla loro ubicazione o morfologia; la tutela del paesaggio appare centrale nell’impianto normativo e la pianificazione diviene obbligatoria.
La tutela del paesaggio contenuta nella legge Galasso assume una dimensione geografica che accomuna sotto lo stesso denominatore complessi di beni di pregio estetico, aree di interesse naturalistico e zone che, pur sprovviste di tali caratteri, presentano interesse per il fatto che non sono ancora state coinvolte da processi di edificazione.
Per espressa disposizione di legge, restavano fuori dalla portata della previsione normativa e, quindi, non assoggettabili a vincolo, le zone completamente urbanizzate e quelle oggetto di una pianificazione dove si sarebbe provveduto di lì a poco a dare attuazione agli interventi previsti dallo strumento di pianificazione generale.
La nuova visione del bene ambientale da tutelare con le legge del 1985 superava l’occasionale e delimitata concezione della tutela posta alla base del previgente regime vincolistico: non più singoli beni da tutelare, ma identificazione, con legge, dei segmenti di paesaggio degni di essere preservati e tutelati con l’apposizione del vincolo ex lege e conservati e valorizzati attraverso la pianificazione paesaggistica, resa obbligatoria per le aree nelle quali sono ricompresi i beni protetti.


I rapporti tra il vincolo ed il piano


Prima di passare all’analisi dei delicati rapporti che intercorrono tra i piani paesaggistici e gli altri strumenti della pianificazione del territorio, è interessante analizzare qui brevemente il rapporto che intercorre tra i piani ed i vincoli paesaggistici.
Nella legge 1497/1939 la dichiarazione di interesse pubblico determinava soltanto l’obbligo procedurale di ottenere la previa autorizzazione per realizzare interventi di trasformazione fisica delle aree vincolate. Temporalmente, quindi, il vincolo precedeva il piano, che specificava nel dettaglio la disciplina di tutela di particolari bellezze naturali. La valutazione di compatibilità degli interventi era rimessa alla assoluta discrezionalità del Ministero. Quello tra vincolo e piano era, dunque, un rapporto del tutto accidentale, considerando anche che tra il 1939 ed il 1985 i piani paesistici approvati a tenore della legge numero 1497 del 1939 sono stati pochissimi.
La situazione è mutata radicalmente con l’approvazione della legge 431/1985, la quale ha introdotto l’obbligo per le Regioni e le Province autonome di approvare i piani paesistici o territoriali-paesisitici.
Così, a partire dalla legge Galasso e sino al T.U. del 1999 la specifica disciplina di uso e valorizzazione di tutte le aree soggette a vincolo ope legis e, facoltativamente, anche delle aree vincolate con provvedimenti singolari, è regolata da un piano di area vasta. Il piano deve considerare tutte e solo le aree assoggettate a vincoli, sia che essi discendano direttamente dalla legge, o che siano di natura provvedimentale. Nella legge 431/1985, e poi nel T.U. del 1999, la funzione precettiva del piano si rafforza, perché esso deve contenere, oltre ad una disciplina degli usi dei beni compatibili con la tutela, anche una disciplina volta alla loro valorizzazione.
Con il T.U. il rapporto tra vincolo e piano diviene organico, nel senso che il piano può comprendere tutte le aree vincolate delle diverse specie, le quali costituiscono l’oggetto del piano stesso. Inoltre, e questo ci sembra il dato nodale, i vincoli di entrambe le specie – sia di fonte provvedimentale che di natura legislativa – non hanno contenuti prescrittivi, in quanto si limitano alla dichiarazione d’interesse pubblico dell’area vincolata, ma contengono i parametri in base ai quali deve essere valutata la concessione delle autorizzazioni volte alla trasformazione delle aree predette.
Spetta dunque al piano paesaggistico, o territoriale-paesistico, dettare una disciplina di merito idonea ad assicurare la tutela attiva delle vaste aree soggette a tutela, specificando e graduando i sistemi di prescrizione in relazione ai diversi ambiti omogenei che caratterizzano, nelle diverse parti del territorio, le peculiari facies del paesaggio.
Il riconoscimento del bene paesaggistico e la conseguente dichiarazione di interesse pubblico, sia che provenga dallo Stato che dalla Regione, costituisce sul piano gerarchico e sostanziale, un presupposto intoccabile della pianificazione paesistica.
Con l’approvazione del Codice il rapporto tra i piani ed i vincoli paesaggistici è radicalmente mutato. Il piano deve considerare, analizzare e valutare la forma visibile di tutto il territorio regionale, anche nelle sue parti non assoggettate ai diversi tipi di vincoli.
La disciplina del piano non è posta solo in funzione delle aree già vincolate ma anzi, esso, potendo considerare il territorio regionale nella sua interezza, può individuare, sulla base dell’articolo 136 del Codice, ulteriori aree da sottoporre a tutela. Pertanto, l’approvazione del piano può fungere anche da contestuale dichiarazione di interesse pubblico in riferimento ad aree che in tal modo vengono assoggettate alla specifica disciplina vincolistica di protezione.
Riassumendo ed in conclusione, il piano paesaggistico, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, assume una triplice funzione: di ricognizione e puntuale localizzazione delle aree già vincolate, ex lege o mediante provvedimento amministrativo, antecedenti al piano stesso; di eventuale individuazione di ulteriori aree da vincolare, che esso assoggetta a vincolo; di previsione, per tutte le aree vincolate di vario tipo, di una disciplina sistemica e graduata, di uso e valorizzazione.


I rapporti tra i piani paesaggistici e gli altri strumenti di pianificazione territoriale: la preminenza del piano paesaggistico


La disciplina per il coordinamento tra la pianificazione paesaggistica e gli altri strumenti di pianificazione è espressamente prevista nell’articolo 145 del Codice.
L’esigenza di coordinare le varie forme di pianificazione che possono interessare il territorio fu avvertita sin dal tempo dell’attuazione delle leggi sulle bellezze naturali, e si è andata rafforzando nel corso degli anni, soprattutto dal momento che si è compreso che le varie forme di pianificazione si intersecano tra loro, ed abbisognano di essere armonizzate.
Per vero, sotto l’etichetta del coordinamento vengono incluse previsioni eterogenee, alcune delle quali riconducibili soltanto in senso lato al concetto di coordinamento. A ben vedere, l’articolo 145 del Codice è dedicato principalmente all’efficacia della pianificazione paesaggistica ed al rapporto, da sempre di difficile coabitazione, con l’urbanistica. Nella materia della pianificazione del territorio la nozione di coordinamento richiama soprattutto la tipologia di piano definita appunto di coordinamento, che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio, ed orienta e coordina l’attività urbanistica stabilendo le direttive da seguire nel territorio considerato. Nel caso dei piani territoriali a vocazione generale il coordinamento sembra assumere una dimensione al tempo stesso organizzata e funzionale. Del resto, il rapporto tra il piano territoriale di coordinamento statale ed i piani comunali è stato posto a base di una ricostruzione del sistema urbanistico connotato dal principio di gerarchia, che deriva dalla gerarchia tra i soggetti pubblici investiti dell’autorità di emanarli: lo Stato ed i Comuni. Il piano di coordinamento può porre delle direttive perché ha uno sguardo più diffuso sul territorio, che i piani di scala inferiore non sono in grado di considerare. Quando, però, il rapporto non intercorre tra atti di pianificazione entrambi a contenuto indifferenziato, perché l’interesse che funge da coordinatore è specifico, il carattere funzionale e non organizzativo del coordinamento è ancora più evidente. In tali casi, infatti, l’interesse di settore è per così dire trasversale, posto che il paesaggio è un valore assoluto e fondamentale, ed il suo porsi come misura di coordinamento nei confronti di altri interessi prescinde da rapporti di gerarchia tra atti o tra soggetti. Questa considerazione, del resto, trova il suo fondamento giuridico proprio nel Codice, il quale all’articolo 132 dispone che «tutte le amministrazioni pubbliche devono cooperare nell’attività di tutela, pianificazione, recupero, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio e di gestione dei relativi interventi».
L’interrogativo sul quale ci si è soffermati è quello relativo alla natura del piano paesaggistico, cioè se esso sia un piano di settore o un piano generale. Invero, dalla esatta qualificazione giuridica del piano paesaggistico derivano importanti conseguenze in punto di rapporti con gli altri strumenti di pianificazione.
La dottrina più illuminata ha considerato il piano paesaggistico come un atto avente portata generale. Per giungere a questa conclusione, si sono valutati diversi elementi che sembrano sostenere questa impostazione.
Se si considera la definizione di paesaggio che si rinviene nell’articolo 131 del Codice, il paesaggio non dovrebbe essere soltanto salvaguardato, ma anche valorizzato. L’ampiezza dei significati sottesi alla norma, e la collaborazione richiesta alle varie istituzioni coinvolte nello svolgimento delle funzioni a ciò finalizzate, si rinviene anche nella disciplina del piano paesaggistico, che si spinge alla previsione di linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con i diversi livelli di valore conosciuti.
Il fatto che a mente dell’articolo 132 del Codice la pianificazione paesaggistica possa estendersi all’intero territorio regionale, conferma come il piano paesaggistico sia suscettibile di avere una portata generale, potendo riferirsi, appunto, all’intero territorio regionale, da quello che presenta il maggiore pregio a quelli compromessi o degradati.
Sulla differenza che intercorre tra piano territoriale urbanistico e piano paesaggistico, non appare più sufficiente la spiegazione secondo la quale attraverso il piano urbanistico si possa tutelare il paesaggio con eguale capacità rispetto al piano paesaggistico, potendosi agevolmente opinare che è vero anche il contrario, cioè che valorizzando il paesaggio si può programmare il territorio.
Si giunge così ad affermare che il coordinamento tra piani del paesaggio e piani del territorio diviene in senso ancor più pregnante un coordinamento tra interessi, che prescinde dagli strumenti e diviene parte di un continuum paesaggio-governo del territorio che informa e coinvolge l’intera disciplina urbanistica.
Il rapporto tra i diversi strumenti di pianificazione ed i problemi che possono emergere a seguito del loro sovrapporsi, sembrano riproporre l’ordinario problema del rapporto tra Stato e Regioni in merito alla distribuzione di competenze in materia di paesaggio.
La tendenza ad attribuire al piano paesaggistico la funzione di piano a portata generale e sopraordinata rispetto agli altri strumenti di pianificazione territoriale, non è stata di certo avversata dal Codice, che, anzi, non appare ispirato dalla volontà di coordinare la pianificazione del paesaggio con le altre forme di pianificazione, quanto da quella di ribadire la superiorità e la preminenza del piano paesaggistico rispetto a qualsivoglia altro strumento pianificatorio.
In tale prospettazione è dunque irrilevante che le aree interessate dal vincolo fossero state oggetto di precedenti interventi di urbanizzazione in quanto la finalità del provvedimento di tutela è proprio l’arresto dell’indiscriminato consumo del territorio, ovvero l’adozione di prescrizioni d’uso coerenti con la conservazione dei valori, concetto che non esclude una guidata trasformazione rispettosa dei caratteri peculiari del territorio.
A tal proposito, una recentissima ed autorevole giurisprudenza amministrativa ha sottolineato che «la tutela paesaggistica, lungi dall’essere subordinata alla pianificazione urbanistica comunale, deve precedere ed orientare le scelte urbanistico-edilizie locali. In definitiva dunque, nella gerarchia degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali il paesaggio prevale, in linea di principio, sugli altri strumenti urbanistici».
Da quanto esposto deve dedursi che la preesistente disciplina urbanistica che interessi una determinata area non può mai costituire di per sé motivo di illegittimità, per contraddittorietà tra atti della pubblica amministrazione, di un provvedimento amministrativo imposto dall’esistenza del vincolo e che contrasti con detta disciplina, dovendosi tenere conto, in primo luogo, della maggiore ampiezza spaziale assicurata dal vincolo paesaggistico, rispetto alla pur preesistente disciplina urbanistica.
Questi dati trovano, peraltro, riscontro nella lettera della legge e, in particolare, nell’articolo 145, comma 3 del Codice dove si legge che «le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli strumenti settoriali».
L’articolo 145 del Codice evidenzia che il piano paesaggistico si presenta come un atto che è in grado di coordinare altri atti pianificatori, ed a cui questi devono in qualche modo subordinarsi. Ed invero, i piani paesistici hanno assunto nel tempo una portata territoriale e qualitativa sempre più ampia, affidandosi ad essi il compito di dettare una specifica normativa d’uso e di valorizzazione ambientale. Questo processo è stato portato a compimento con il Codice, attraverso il quale la tutela del paesaggio ha assunto una portata generale e comunque una decisiva prevalenza di valore rispetto alla pianificazione urbanistica, sull’intero territorio, venendo a disciplinare anche immobili non soggetti a vincolo paesaggistico. Ed inoltre, «all’interno di questo quadro si collocano le previsioni normative che stabiliscono che i piani paesaggistici dettino misure di coordinamento con gli strumenti di pianificazione territoriale di settore, nonché con gli strumenti regionali e territoriali per lo sviluppo economico; è coerente con tale impostazione la previsione del piano ambientale che imponga agli strumenti urbanistici di prevedere un intervento concertativo della Soprintendenza nella fase della progettazione di un piano attuativo di iniziativa privata».
Nell’articolo 150 del precedente d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, dedicato espressamente al coordinamento della disciplina urbanistica, vi era un richiamo esplicito all’articolo 5 della legge 1150/1942, e dunque al piano territoriale di coordinamento, per indicare l’obbligo di conformazione gravante sui piani regolatori e sugli altri strumenti urbanistici. In questo modo la discussa distinzione tra piano paesaggistico e piano urbanistico-territoriale con valenza paesaggistica veniva quasi a ricomporsi nella figura originaria del piano di direttive.
Tutti i piani di settore in materia ambientale conosciuti dal nostro sistema sono piani che possono definirsi misti, cioè in parte diretti a conformare suoli ed in parte rivolti a coordinare l’attività conformativa di suoli posta in essere da altri soggetti. Si pensi, ad esempio, all’articolo 12 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, secondo cui il piano del Parco è immediatamente vincolante nei confronti delle amministrazioni e dei privati, e all’articolo 17, comma 5, della legge 18 maggio 1989, n. 183, secondo cui le prescrizioni del piano di bacino «hanno carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni ed enti pubblici, nonché per i soggetti privati, ove trattasi di prescrizioni dichiarate di tale efficacia dallo stesso piano di bacino».
La formula utilizzata dal Codice per affermare la prevalenza del piano paesistico sugli altri strumenti di pianificazione si sostanzia nello sviluppo degli effetti di cui esso è capace: immediata prevalenza su disposizioni difformi degli strumenti urbanistici; previsione di norme di salvaguardia; vincolatività per gli interventi settoriali.
In giurisprudenza non si sono mai manifestati dubbi sul fatto che i contenuti dei piani paesistici prevalgano sulla pianificazione urbanistica comunale, che è tenuta ad adeguarvisi secondo un principio di sostanziale sovraordinazione degli strumenti di pianificazione e di controllo preordinati alla tutela degli interessi di conservazione dell’ambiente e del paesaggio rispetto alla tutela riservata agli altri interessi collegati alle esigenze di sviluppo.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, l’assoluta equivalenza tra i piani paesaggistici ed i piani territoriali urbanistici, ed una riconosciuta reciproca integrazione di strumenti pianificatori può dar luogo, in determinate situazioni, all’imposizione di condizionamenti sulla sottostante programmazione urbanistica comunale in grado di risolversi, per il loro contenuto totalmente vincolante, in veri e propri vincoli di inedificabilità con effetti giuridici indirettamente proiettati sulle posizioni dei privati.
Anche dopo l’emanazione del Codice rimane una certa indeterminatezza sulla questione se il piano paesaggistico sia immediatamente conformativo della proprietà o agisca soltanto indirettamente sui suoli, ossia in cosa consista precisamente la suddetta prevalenza.
In definitiva, quando si pensa ad un piano misto, non ci si deve riferire ad un insieme di direttive da una parte e di prescrizioni puntuali dall’altra, che si rivolgono ad ambiti diversi. Sono le stesse previsioni del piano ad assumere un contenuto sincretico, non definitivo, ma allo stesso tempo non risolvibile in una direttiva, poiché conferiscono alcuni elementi di conformazione ai beni ma lasciano anche margini di adattamento ed integrazione ai livelli inferiori.
In questa prospettiva, gli sviluppi normativi ed il dibattito giurisprudenziale e dottrinario ci hanno consegnato un modello dove, nei rapporti tra piano paesaggistico e gli altri piani territoriali il principio di prevalenza dell’istanza paesaggistica si converte in un vero e proprio «principio della gerarchia degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali».
In base alle superiori considerazioni, si coglie una volta di più l’atteggiamento di sostanziale sfiducia che pervade l’intero Codice, in ordine alla capacità degli amministratori locali di perseguire in modo efficace ed adeguato gli obiettivi della salvaguardia e preservazione dei valori paesaggistici attraverso gli ordinari strumenti di pianificazione urbanistica. Per questo, forse, si è sancita, in buona sostanza e con uniformità di consensi, la definitiva superiorità della pianificazione paesaggistica, dove allo Stato si è riconosciuta la sostanziale capacità di guidarne l’attuazione nei confronti della pianificazione urbanistico-territoriale, che, essendo di competenza regionale, deve risultarvi subordinata, siccome imposto dal generale principio della gerarchia dei poteri.
Con inevitabili forzature, e quasi ostinatamente, si è proceduto ad un accentramento di potere verso lo Stato, in una materia dove invece sarebbe stato preferibile mantenere un certo coordinamento, favorendo anche un vantaggioso decentramento verso le articolazioni periferiche del potere locale, contemperando i rispettivi interessi, con l’osservanza in ogni caso del principio di equilibrata concorrenza e cooperazione tra i due poteri, in relazione ai momenti fondamentali della disciplina posta a protezione del paesaggio.
Questa scelta ha comportato, inevitabilmente, un totale snaturamento delle caratteristiche dei piani paesaggistici rispetto a ciò che hanno tradizionalmente rappresentato, cioè strumenti di pianificazione territoriale in grado di condizionare la pianificazione urbanistica comunale senza potervisi sostituire, e senza che vi fosse la necessità di cercare a tutti i costi principi di superiorità o di prevalenza di uno strumento sull’altro, ma cercando, semmai, il coordinamento e la cooperazione tra le autorità preposte ad emanarli.
In conclusione, i nuovi piani paesaggistici, sia per la valenza onnicomprensiva che possiedono, sia per la specificità della disciplina da essi dettata, potrebbero assumere una forza di penetrazione e di condizionamento rispetto agli altri atti di pianificazione tali da svuotare questi ultimi della maggior parte del loro contenuto.
Sarà necessario ed imprescindibile che in sede di concreta attuazione dei piani urbanistici da parte degli enti locali, questi non si traducano in atti di mera esecuzione dei piani paesaggistici che in altra, e superiore sede sono stati approvati e determinati.
È auspicabile che ciò non avvenga, giacché si realizzerebbe una grave invasione di campo da parte dello Stato nella materia urbanistica e della gestione del territorio, che costituisce per le Regioni e per i Comuni una delle prerogative più importanti con cui essi amministrano, gestiscono e governano il proprio territorio.


 


Francesco MagnosiIl diritto al paesaggio: tutela, valorizzazione, vincolo ed autorizzazione
L’opera affronta in modo esaustivo ogni risvolto giuridico della nozione di paesaggio, alla luce delle analisi dottrinali e giurisprudenziali successive alla Convenzione Europea del 20 ottobre 2000. La Convenzione ha infatti introdotto in Europa un nuovo modo di considerare e gestire la dimensione paesaggistica del territorio ed ha elevato il paesaggio a concetto giuridico autonomo, che rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale e costituisce un’occasione per promuovere l’identità e lo sviluppo del territorio. Particolare attenzione viene riservata al riparto di potestà legislativa ed alle funzioni di tutela e valorizzazione del paesaggio, attraverso l’esame specifico della procedura diretta alla dichiarazione di notevole interesse pubblico paesaggistico e del sistema di pianificazione. Sono compiutamente esaminati anche i procedimenti di autorizzazione paesaggistica disciplinati dal Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, sia alla luce degli orientamenti giurisprudenziali che hanno contribuito a chiarirne le modalità applicative, sia sulla scorta delle più recenti innovazioni legislative, che hanno apportato una notevole semplificazione al sistema di gestione del vincolo paesaggistico.


 






Il diritto al passaggio

Francesco Magnosi
Il diritto al paesaggio: tutela, valorizzazione, vincolo ed autorizzazione (collana a cura di Marco Antoniol)

La monografia si sofferma sulle forme di tutela e valorizzazione del paesaggio, sulla gestione del vincolo e soprattutto sull’autorizzazione paesaggistica.
Acquista online >>>