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Aspetti di salvaguardia delle attuali razze caprine alpine italiane

Il futuro nella condivisione di una corretta “filosofia” di tutela e promozione economica

di Luigi Andrea Brambilla

Alpina Comune
Alpina Comune in mostra nel VCO (foto Luigi A. Brambilla)

L’arco alpino, fra cui anche quello italiano, è caratterizzato da una infinità di forme agricole e zootecniche che lo rendono oggi uno fra i più interessanti bacini di biodiversità dell’Ue. Da tempo questa unicità è di interesse anche da parte delle politiche europee e nazionali. La recente ratifica da parte degli Stati Membri del Reg. CE 1698/05 (Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013), e l’approvazione da parte di Bruxelles dei singoli programmi, ne è una conferma.   
Le razze zootecniche a limitata diffusione e il loro sistema di allevamento pastorale, infatti, trovano ancora ampio spazio nei nuovi programmi. La definizione amministrativa di razza zootecnica a limitata diffusione nella specie caprina si rifà alla sua consistenza, la quale, non deve superare i 10 mila capi.
Di seguito viene dato l’elenco delle attuali razze caprine ufficiali presenti nel nord Italia munite di specifico Registro Anagrafico (RA): Capra Valdostana (Regione Valle d’Aosta), Capra Sempione – Capra Vallesana – Capra Roccaverano (Regione Piemonte), Capra Bionda dell’Adamello – Capra Frisa Valtellinese – Capra Orobica di Val Gerola – Capra Verzaschese – Capra Lariana (Lombardia), Capra Pezzata Mochena (Provincia Autonoma di Trento), Capra Passiria (Provincia Autonoma di Bolzano) e Capra Istriana (Regione Friuli).
Oltre a queste razze considerate minacciate di estinzione esiste, con il solo appellativo di razza locale, L’Alpina Comune che, superando il limite dei 10 mila capi (se ne stimano circa 100.000 su tutto l’arco alpino italiano), non è considerato in pericolo di scomparsa.
Le differenti iniziative a favore di questo multiforme patrimonio, messe in atto a partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso, per il carattere molto “individualista”, inteso come unicamente a beneficio di una singola razza, hanno contribuito ad una situazione attuale di elevata disomogeneità del livello di salvaguardia delle capre autoctone. Sono praticamente inesistenti, infatti, progetti che riguardano il settore capre locali nella sua interezza di realtà.
Non a caso sul nostro territorio vi sono, attualmente, un numero elevato di popolazioni locali che attendono pazienti di essere studiate e messe a confronto con la macro-razza Alpina Comune o Locale. Si aggiungono a queste razze che, pur riconosciute a livello amministrativo (ufficializzazione attraverso l’istituzione dell’apposito Registro Anagrafico), faticosamente cercano il consolidamento o l’aumento della propria consistenza numerica, altre invece, in condizioni numericamente migliori, cercano di trovare una stabile identificazione economica per sopravvivere, in alcuni casi, purtroppo, in maniera discutibile dal punto di vista della salvaguardia.
Se si sposta poi l’interesse dal tipo di strutturazione degli interventi, alla sensibilità del territorio a queste problematiche, la realtà si arricchisce, si fa per dire, di una certa passività nell’aspettare che si verifichino le condizioni economiche favorevoli per incentivare l’allevamento delle capre autoctone, condizioni che difficilmente si possono materializzare senza un preciso progetto d’intervento condiviso.
A fronte di questa situazione, esistono degli obbiettivi prioritari, dettati da precisi fini, che andrebbero tenuti in considerazione nella ideazione delle strategie future di azioni in favore di questo settore.
Il più evidente, perché già citato, e anche il più complesso, è quello di lavorare insieme per raggiungere un medesimo livello di salvaguardia di tutte le Razze Caprine Locali Alpine Italiane riconosciute ufficialmente. Questo può avvenire unicamente attraverso un percorso collettivo, strutturato e condiviso, a fronte però del riconoscimento di un’“etica comune di salvaguardia”. La competizione fra le razze, infatti, per una precisa sopravvivenza numerica, attraverso una “spettacolarizzazione” strumentale delle stesse, favorisce la diffusione immotivata di razze locali più forti, anche solo dal punto di vista della promozione, in territori non propri, accentuando in negativo, il divario fra le singole razze.
Un aspetto altrettanto interessante, ma spesso anche’esso strumentalizzato, riguarda le dinamiche socio-economiche proprie delle razze locali e di chi le alleva. Nella maggior parte dei casi è presente uno scenario popolato da allevatori appartenenti alle categorie familiari e amatoriali, e più scarsamente a quelle di allevatori imprenditoriali.
È bene prima di tutto precisare che l’allevamento amatoriale, anche se molto raro nel comparto caprino, si differenzia principalmente da quello familiare per il diverso rapporto con la campagna. Esso ne è totalmente slegato (limitato uso delle risorse foraggere), ma non va sottovalutata anche l’importanza del tutto marginale delle produzioni ottenute.
Di contro, infatti, l’allevamento familiare utilizza le produzioni principalmente per auto-consumo, contribuendo sensibilmente al reddito familiare. A questo si aggiunge l’importante ruolo nel mantenere il territorio attraverso lo sfalcio dei prati e prati-pascoli.
La condizione di imprenditorialità sta invece nella presenza, all’interno della razza, di allevatori che traggono tutto il proprio reddito dall’attività agricola, o in cui il proprio reddito è equiparabilmente ottenuto anche da attività extra agricole (part-time, cioè multi-redditualità in zone rurali). In questo ultimo caso, per soddisfare i principi di salvaguardia internazionalmente riconosciuti a favore delle razze locali, è bene che l’imprenditorialità sia strettamente legata alla condizione di pastoralismo, senza farsi trarre in inganno dall’assioma imperante, che l’unico modo di fare impresa, in montagna, sia quello di allevare in modo convenzionale/intensivo con razze selezionate.
Il pastoralismo, va precisato, è quello status, per il quale dovrebbero essere ben chiare le condizioni che rendono differenti gli allevamenti “di” montagna da quelli “in” montagna. Nel primo caso la preposizione (“di”) è intesa come sinonimo di appartenenza (armonica-sostenibile integrazione in un territorio), la seconda (“in”) come semplice determinazione di stato in luogo di un allevamento (collocazione fisica), ma che esclude tutta una serie di caratteristiche di profonda appartenenza ad una cultura, ad una economia in favore di un territorio. 
Tutto questo non è filosofia, inteso in senso screditizio come spesso accade, ma sono razionalità che si ripercuotono direttamente sulla corretta proposta di prodotti agricoli sul mercato. Il consumatore deve acquistare in maniera consapevole, va messo in condizione di maturare delle precise scelte in favore di quale tipo di allevamento intende favorire con le proprie preferenze.

 Allevamento
“di”
Montagna

Valorizzazione delle risorse foraggere locali, presidio territoriale (monticazione-inalpamento), produzioni tradizionali, circuiti di smercio dei prodotti in mercati e esercizi locali, razze autoctone o cosmopolite a bassa pressione selettiva, sostegno da parte delle politiche dell’Ue, ecc.

 Allevamento
“in”
Montagna

Ridotto presidio territoriale per mancanza di alpeggio o pascolo di media quota, utilizzo soprattutto di risorse extra locali, commercializzazione dei prodotti anche nei mercati extra locali e nella grande distribuzione,  produzione non tradizionali  (caseificazione con tecnologia moderna) e se tipiche  normalmente rivisitate, allevamento di razze selezionate o se locali, con solo scopo promozionale d’immagine, elevato impatto sul territorio, progressiva riduzione di sostegno da parte dell’Ue, ecc.

In questa ottica, diversità fra sistemi allevatoriali e fra tipologie di allevatori, le azioni da attuare devono concretizzarsi nel colmare prima di tutto i “vuoti di tutela” e i “vuoti di mercato” presenti nelle nostre razze caprine alpine locali. Questo può accadere se si percepisce, a livello decisionale, l’importanza di un equilibrato rapporto, corretto e non strumentale, fra i diversi sistemi allevatoriali appena sopra descritti, -diversità come forma di arricchimento e non di competizione.

 

 Condizione

 Effetto

 Fattore di predisposizione

 “vuoto di tutela”

Assenza di iniziative spazio-temporali sulle capre autoctone. Possibilità che lo specifico “vuoto” venga colmato dall’introduzione di razze locali confinanti, in possesso nei rispettivi territori di origine, di un livello di tutela superiore e più radicato. Impreparazione alla risoluzione delle problematiche inerenti le razze locali minacciate di estinzione.
Assenza di azioni locali e/o nazionali.

 “vuoto di mercato”

Presenza di iniziative che sfruttino l’immagine delle razze caprine alpine autoctone senza una reale ricaduta sulla loro condizione di salvaguardia. Presenza consolidata sul mercato di un formaggio o altro prodotto dell’allevamento, a fronte di una razza totalmente o quasi scomparsa, o peggio ancora, inutilizzata economicamente. Incapacità del mercato di individuare inequivocabilmente i prodotti agricoli pastorali, ottenibili per tradizione dalle sole razze locali.

Quindi, la situazione attuale delle razze caprine locali sull’arco alpino italiano è molte volte, purtroppo, poco incoraggiante. Spesso, questo è legato a politiche locali che in fondo non credono nelle possibilità dell’allevamento delle capre autoctone in sistemi pastorali-tradizionali. Oppure, antepongono le problematiche economiche d’immagine ad interventi di minor visibilità politica, ma che invece andrebbero eseguiti preventivamente per preparare le razze ad esprimere le loro potenzialità. L’aspetto economico risulta di rilevanza fondamentale per la tutela delle nostre capre, questo è incontestabile, ma è l’ultima fase di interventi che dovrebbero essere preventivi, progressivi e graduali. Fasi investigative, -di consolidamento, -di espansione, -di diffusione del patrimonio caprino locale se non attuate precedentemente e in modo responsabile, portano solo a ritardare ulteriormente il raggiungimento di status di razza “economica” e successivamente quello di razza “economicamente migliorabile”.

 Tipo di fase  Condizioni
 

Raggiungimento dello status di razza “economica”

Presenza di attività imprenditoriali anche sporadiche. Presenza di un numero sufficiente di animali che consenta la nascita di neo-realtà imprenditoriali. Equità e corrispondenza dei prezzi al reale valore dell’animale e non per scarsità di capi, per ragioni puramente estetiche di razza o temporaneo interesse amministrativo. Mancanza di disponibilità a pagare prezzi elevati per l’acquisto di riproduttori. Testimonianza commerciale della potenziale attività di trasformazione casearia e carnea, meglio se tradizionale. Volontà amministrativa di creare delle opportunità economiche.
   Obbiettivi
 

Miglioramento “Economico”

Attuazione di piani di miglioramento funzionale nel rispetto dei principi di tutela. Interventi collettivi sul sistema di allevamento, sulle tecnologie di produzione e trasformazione. Ottimizzazione della gestione delle risorse foraggere e loro potenziamento. Favorire buone e stabili condizioni di mercato. Miglioramento delle condizioni strutturali locali. Garantire la definizione di uno “stile” aziendale collettivo (economico e/o di tutela).

In conclusione, anche se può sembrare un’ulteriore aggiunta di “torizzazzioni” poco pratiche, è fondamentale, a fronte di tutto ciò che è stato detto, il raggiungimento di una precisa “onestà intellettuale” a garanzia a sua volta di una onesta culturale, economica e di salvaguardia. Più precisamente, per onestà di salvaguardia, oltre a quello già detto (competizione fra razze), andrebbe evitato l’uso immotivato di riproduttori esteri selezionati senza nessuna accomunanza geografica, genetica o culturale con le nostre razze caprine. L’Ue è molto chiara, per accedere ai contributi l’allevamento deve essere in purezza. Per onestà culturale deve intendersi, invece, il principio di produrre secondo le metodiche autentiche/storiche, a partire dal sistema di allevamento, garantendo l’identità vera di prodotto “tipico”. La rivisitazione, per consentire la produzione in contesti allevatoriali non tradizionali, sminuisce il prodotto “tipico” declassandolo a semplice prodotto “locale”, anche se ottenibile con lavorazioni artigianali. Una categoria anche questa importante, perché prodotta localmente, ma il consumatore deve essere cosciente di quello che acquista. Ecco che emerge anche la necessità di una onestà economica! Chi acquista deve sapere se il prodotto è anche espressione o meno di una autentica “identità pastorale”.

Bibliografia di riferimento
– Brambilla L.A. “Problematiche di tutela delle Razze Caprine Alpine italiane”. L’allevatore di ovini e caprini, anno XXII n° 3, Marzo 2006. 
– Brambilla L. A. “Valutazioni sullo stato di tutela delle Razze Caprine Alpine Locali italiane”. In convegno SoZooAlp “L’allevamento ovicaprino nelle Alpi: tra identità culturale e sostenibilità” 26-29 ottobre 2006,Valle Stura (CN).
In QUADERNI SoZooAlp Volume 4° pagg. 191-198 (ww.SoZooAlp).

Luigi Andrea Brambilla, laureato in Scienze Agrarie con indirizzo zootecnico all’Università di Milano, ha maturato la sua esperienza lavorativa nel campo della tutela delle razze caprine alpine, svolgendo numerosi lavori di ricerca, coordinando differenti progetti di salvaguardia, contribuendo alla stesura di alcuni standard di razza. Attualmente è esperto di razza (Registri Anagrafici Assonapa-ROMA), per alcune razze ovi-caprine alpine. Curriculum vitae >>>

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Giovanni De Luca – Edagricole