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Dalla ghianda al salamino (3^ Parte)

di Mario Giannone

ALCUNE PARTICOLARITA’ ANATOMO-FISIOLOGICHE DEI SUINI E CAMBIAMENTI AVVENUTI NELLA STORIA SELETTIVA E DEI CONSUMI

Cinta Senese
Cinta Senese (foto Mario Giannone)

Tra le particolarità anatomo-fisiologiche è normale considerare in primo luogo la pelle che è relativamente spessa e l’epidermide (cotica) la quale, per la rilevante riduzione del sistema pilifero e per le connessioni con il tipo costituzionale della specie, è notevolmente spessa e coriacea.
I peli, chiamati setole, sono resistenti e rigidi. Non sono uniformemente sparsi e fitti su tutto il corpo. Presentano, soprattutto nelle razze primitive, un relativo maggior addensamento lungo la linea dorso-lombare (linea sparta), altre razze, anche storiche, risultano prive di setole come la Casertana che come secondo nome ha appunto quello di Pelatella. Quando il suino è irritato le setole della zona dorso-lombare vengono rizzate in modo tipico, questo comportamento è caratteristico del Nero Siciliano, ma allo stesso tempo di tutti i cinghiali. Solo la razza ungherese Mongolitza e poche altre eccezioni, hanno una copertura così estesa da essere paragonabili al manto degli altri mammiferi. Una volta i suini allevati erano rigorosamente “colorati”, il colore o le particolarità, distinguevano le razze: si avevano così suini pezzati, fasciati, rossi, grigio ferro, grigi, mori, ma con la selezione e i nuovi orientamenti produttivi dettati dall’emergente allevamento intensivo e da un consumatore diverso, il colore nelle razze selezionate è scomparso per cedere il posto al bianco o al bianco rosato.
Gli arti sono forniti di quattro dita, di cui due rudimentali limitate al nodello, fornite di unghielli, e due all’estremità distale dell’arto per l’appoggio, ricoperte da unghioni. Esistono talune razze, ma pochissime, nelle quali le due dita normalmente sono invece contenute in un solo unghione con un dito simile a quello dell’equino rivestito dallo zoccolo. Tra queste, la razza appunto detta Casco de Mula della Colombia. Le cosiddette razze “migliorate” di oggi, hanno negli arti e nel piede due punti deboli, sono sempre più frequenti animali con difficoltà nel movimento e con dolori diffusi ai legamenti e alle articolazioni. Questo è la conseguenza di una selezione monodirezionale, che ignora equilibrio e proporzioni, che pur di accelerare i tempi di crescita mette in secondo piano molti, troppi, aspetti funzionali.
Le ghiandole sebacee sono piccole, mentre le sudorifere sono molto sviluppate e particolarmente alla faccia mediale del carpo (ghiandole carpiche), con un secreto denso, di odore caratteristico e che si ritiene abbia anche un significato di richiamo sessuale (ferormoni). Le mammelle, nelle scrofe, sono nel numero di 5-9 per lato, disposte lungo due linee mammarie che vanno dal torace all’inguine. Le mammelle si sviluppano considerevolmente a cominciare dal primo parto. Il capezzolo ha la sommità perforata da 2-3 sbocchi e mai da uno solo, le mammelle toraciche risultano a maggiore capacità lattifera.
La testa tipica a forma piramidale: quadrangolare alla base si allunga a cono facciale per formare il grugno o grifo, più o meno appiattito antero-posteriormente a seconda del grado di “perfezionamento” della razza. In rapporto a ciò, la linea superiore tra cranio e faccia, è sempre più o meno avvallata. Il grugno è sostenuto da una peculiare formazione ossea, che lo rende robusto e quindi atto alla ricerca del cibo anche attraverso lo scavo del terreno (grufolamento). Le vertebre cervicali sono corte e larghe. Il numero delle vertebre delle altre sezioni della spina dorsale è relativamente suscettibile a variare, contribuendo così a modificare la lunghezza del tronco, come è avvenuto in certe razze selezionate (la cosiddetta conformazione a “sigaro o siluro”, tipica della razza Landrace danese): quelle toraciche da 14 a 15, sino a 16-17; quelle lombari da 5 a 7; quelle sacrali sono 4 ed il sacro è incurvato a concavità centrale; quelle caudali da 16 a 21. La ricerca di suini sempre più lunghi è stato un passaggio selettivo importante negli anni 70/80, oggi tali risultati sono stati consolidati. Il bacino è, in complesso, molto ampio. La bocca presenta una rima labiale ampia, con labbra spesse, di cui l’inferiore è più piccolo, appiattito ed allungato verso l’avanti. La dentizione è caratterizzata da un forte spessore dello strato dello smalto, il che facilita la frantumazione dei corpi duri.
I molari sono quadritubercolari, con aumento dei tubercoli stessi nelle forme più evolute. I premolari sono schiacciati e taglienti. Gli incisivi sono diversificanti. I picozzi ed i mediani sono ad accrescimento limitato. I canini o zanne sono meno sviluppati nelle femmine e nei soggetti castrati precocemente. Nei verri sono ben visibili dall’esterno, risultano ad accrescimento continuo e sono privi di radici.
Dal punto di vista fisiologico i suini selvatici o primitivi, erano caratterizzati da lenti accrescimenti, con carne scura, compatta e magra. Il grasso poco presente, ben localizzato, con prevalenza di acidi grassi insaturi e poco colesterolo. Si potrebbe dire un suino perfetto per il consumatore di oggi. Il successivo confinamento, l’alimentazione forzata, il ricorso a granaglie per il finissaggio, l’introduzione del mais, nonché un mercato recettivo verso i grassi animali, ha determinato, nei secoli, la nascita di razze da ”lardo o “grasso”. Questi suini inoltre presentavano un grasso ricco di acidi grassi saturi e di colesterolo. Tale prodotto poco idoneo al consumatore attuale, basti pensare alla popolazione umana di oggi che ha una età sempre più alta, allora risultava prezioso per chi doveva svolgere pesanti lavori fisici e vivere in case appena riscaldate. Anche oggi da questi suini si ottengono gli insaccati più prelibati e decisamente più stabili ad una stagionatura naturale senza antiossidanti aggiunti, proprio perché l’acido grasso saturo oppone una valida resistenza ai processi di ossidazione e di irrancidimento. Il ritorno delle nostre razze nazionali, con capacità adipogenetica spinta, infatti ha un senso maggiore nella filiera del biologico e dei mercati di nicchia di qualità.
Solo in questi ultimi decenni le cose sono mutate anche radicalmente. Il consumatore ha cambiato vita, ha ridotto drasticamente l’assunzione di energia, soprattutto di origine animale. La selezione si è indirizzata prontamente verso suini più magri, dotati di rapido sviluppo, con eccellenti indici di conversione alimentare, ma con carni meno sapide e mature. Cambiano le tecniche di allevamento che diventano pratiche industriali, il suino comincia a soffrire di tecnicopatologie prima sconosciute: compare la PSE (Pallido, soffice essudativo, riferito al trasformato), le carni acide e la PSS (sindrome da stress dei suini). Migliorano le condizioni igieniche, ma peggiora la sicurezza alimentare legata all’uso di principi auxinici e promotori di crescita. Migliorano le modalità di macellazione, lavorazione e stagionatura degli insaccati e prosciutti, ma cambia il sapore del prodotto finito. Si creano moderni modelli di allevamento, senza terra, con forte accentramento di animali ricorrendo pesantemente al finanziamento pubblico e devastando fiumi e coste  e la qualità della vita delle popolazioni residenti nelle aree limitrofe agli allevamenti. Si abbandonano le aree da sempre valorizzate nel modo migliore dai nostri suini, zone ricche di piante arboree appartenenti al genere Quercus, faggio e castagno che generosamente producono immense quantità di frutti che come ben sappiamo possono essere convertiti, dai nostri maiali, in nobili proteine. Si trascurano, perché definite marginali vaste aree del Paese, per produrre invece in poche zone d’Italia, un prodotto di massa e per il beneficio di pochi.
Come siamo arrivati a questo? E’ solo nel 18° secolo che inizia questa storia e solo in alcune zone. L’allevamento del suino lascia il bosco e la fattoria, per concentrarsi in grossi complessi prossimi ai centri urbani. I suini sono destinati poi alle vicine città che sotto le prime spinte, connesse al processo industriale cominciano a crescere; crescono nelle dimensioni e nei bisogni. L’industrializzazione porta poi anche alla nascita di industrie agroalimentari e tra queste primeggiano per interesse i grandi caseifici, i quali si trovano nel bisogno di smaltire ingenti quantità di siero, latticello e altri ingombranti sottoprodotti della caseificazione. Tutto questo viene canalizzato verso un nascente allevamento suino spesso a ciclo aperto con interessanti prospettive commerciali. Da qui il passo all’allevamento industriale intensivo è breve. Nascono  realtà a ciclo chiuso, cresce la professionalità di chi opera in questi settori, si sviluppa un indotto enorme connesso alle strutture, ai mangimi e ai medicinali. La qualità, concetto difficile da stabilire, si uniforma e si appiattisce il gusto, ma viene concesso ad un numero sempre più ampio di consumatori di portare la carne sulla propria mensa a costi decisamente meno proibitivi: “un bel successo sul piano sociale”.

 Verro di razza Landrace italiana
Verro di razza Landrace italiana (foto www.agraria.org)

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“L’allevamento biologico del suino”
Mario Giannone – Edagricole

Le principali fonti di consultazione sono state:
– “Etnologia Zootecnica” UTET, di Telesforo Bonadonna,
– “L’allevamento biologico del suino” Edagricole, di Mario Giannone
– Razze autoctone alla riscossa di M. Giannone, Rivista di suinicoltura n.4 2002
– Dossier: Le regole d’oro per produrre il suino bio, Rivista di suinicoltura n.11, 2000 – M. Giannone
– La filiera del biologico è una realtà, Rivista di Suinicoltura n.12, 2000 M. Giannone

Mario Giannone è laureato in Scienze Agrarie all’Università di Firenze. Insegnante di zootecnia all’Istituto Tecnico Agrario di Firenze, presta la sua opera di assistenza tecnica specialistica presso Enti regionali, Parchi e Associazioni. E’ autore del libro “L’allevamento biologico del suino” edito da Edagricole-Sole 24 ore. Curriculum vitae >>>