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di Angelo Calì

Premessa

La fava larga di Leonforte è una delle varietà locali di Vicia faba major, legata in maniera inscindibile al territorio di origine del prodotto (Leonforte ed alcuni paesi limitrofi, in provincia di Enna).
Il prodotto, riconosciuto ed inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali; risulta anche annoverato, come ecotipo locale, in moltissimi testi universitari di coltivazione erbacee in uso presso le scuole di agraria,
Come tutte le varietà di Vicia faba major (caratterizzate dal peso di 1000 semi sempre superiore ai 1000 g) si distingue, tra l’altro, per raggiungere e superare, nel caso del prodotto selezionato destinato alla vendita, un peso medio per singolo seme-legume di 3 g.
In passato era molto diffusa nel territorio come pianta miglioratrice, impiantata in precessione e successione alla coltura granaria, tipicamente sfruttante (un detto del passato recitava: “a favata cummatti cha malannata”, cioè nel terreno dove sono state impiantate le fave si ottiene sempre una discreta produzione anche in presenza di condizioni avverse); infatti le ripetute sarchiature manuali, i residui colturali e l’azoto fissato dai batteri simbionti (Rhizobium leguminosarum), permettevano alla successiva coltura di frumento duro di svilupparsi e produrre nel migliore dei modi (non si avevano a disposizione prodotti di sintesi, quali concimi e fitosanitari, oggi indispensabili per ottenere produzioni rispondenti alle richieste delle grandi industrie multinazionali).
La coltivazione della fava, fino all’inizio degli anni ’70, ha rappresentato una delle principali voci di reddito per l’economia agricola del territorio.
Oltre alle funzioni di pianta miglioratrice la coltivazione di tale leguminosa permetteva di ottenere un prodotto secco di facile e lunga conservazione e di utilizzo continuo nella cucina locale.
Le fave (carne dei poveri), assieme ai cereali, rappresentavano per le popolazioni locali la base della dieta quotidiana, l’elevato contenuto proteico ed il profilo aminoacidico della leguminosa, completandosi almeno in parte con quello dei cereali, sostituiva le proteine nobili dei prodotti di origine animale, nel passato, se non assenti, poco presenti nell’alimentazione soprattutto delle classi economiche più povere.
La meccanizzazione spinta di tutte le operazioni colturali che ha caratterizzato l’ultimo trentennio ed il sempre maggiore utilizzo di prodotti di sintesi, ha negli anni ridotto le superfici investite con tale coltura fino a quasi farla scomparire del tutto dagli ordinamenti colturali (da diverse centinaia di ettari investiti e da produzioni di diverse centinaia di tonnellate, si è passati a pochi ettari e solo pochissime tonnellate di prodotto raccolto).
La principale causa del declino è sicuramente da ascrivere all’impossibilità della meccanizzazione; le rilevanti dimensioni del seme, l’esiguo numero di baccelli e l’inserzione di questi a pochi centimetri da terra, rendono impossibili le operazioni di semina e soprattutto di raccolta meccanizzata; la necessità di ripetute sarchiature manuali e l’elevato costo della manodopera hanno fatto il resto.
Le abitudini alimentari attuali, ove predominano prodotti di origine animale, con effetti anche negativi per la salute umana e la sempre maggiore attenzione verso le diete di tipo mediterraneo, dove verdure e legumi occupano un posto di sicuro rilievo, hanno fatto aumentare l’interesse dei consumatori verso questo prodotto, diventato oggi di non facile reperimento nei mercati ove spesso si trovano altre varietà di fava, vendute in maniera fraudolenta, come fava di Leonforte.

Notizie varie

La fava larga di Leonforte, in gergo chiamata anche “fava turca”, si caratterizza, oltre che per le rilevanti dimensioni dei singoli semi, per la facile cottura, per la ricchezza di nutrienti quali proteine, fibre, vitamine e sali minerali che uniti alla scarsa farinosità ed al gusto particolare del legume danno vita ad un prodotto sicuramente unico nel suo genere
Per varie motivazioni quali: il legame con il territorio, la coltivazioni con metodiche tradizionali esclusivamente manuali, l’elevata versatilità nella cucina tipica e l’elevato rischio di abbandono della coltura, è stata nel recente passato annoverata tra i presidi slow-food che, tramite un disciplinare di produzione e la tracciabilità del prodotto, garantisce condizioni di tipicità e di tradizionalità delle operazioni colturali.
Prima dell’avvento spinto della meccanizzazione agricola, si aspettavano le prime precipitazioni autunnali e si iniziavano i lavori preparatori del terreno utilizzando una coppia di bovini ed un aratro ad un vomere al fine di rivoltare lo strato superficiale del terreno e raggiungere gli strati più profondi (20-25 cm al massimo).
Terminate le semine del frumento si iniziava quella delle fave in genere non prima che fosse passata la prima decade del mese di dicembre; sempre con l’ausilio di attrezzi e della forma motrice degli animali si procedeva con l’apertura del solco (“zotino”) ove, un’altra persona, a postarelle distanti 30-35 cm, poneva 3-4 semi, rigidamente “femminelle”, cioè semi di fava con la parte distale caratterizzata da una leggera affossatura (il lavoro di selezione dei semi “scartari i fimmineddi” era svolto dalle donne e dai bambini con l’arrivo della stagione fredda quando scarsi o nulli erano gli effetti eritematosi “scuotulu” o “mangisciumi” degli acari parassiti del tonchio, comunemente detto “papuzza”); con un ulteriore passaggio si provvedeva ad aprire un altro solco rivoltando il terreno sollevato sul solco già aperto per coprire e semi già collocati sul terreno; si continuava così, aprendo altre file distanti dalla prima circa 40 cm, fino al completamento del campo (spesso per più giorni).
Si effettuava una semina tardiva (in genere dopo la festa dell’Immacolata) perché l’esperienza aveva dimostrato che si rendevano minimi i danni causati dalla “lupa”, viene così indicata la comparsa dell’Orobanche crenata, terribile emiparassita che si incista nelle radici della pianta ospite e che è in grado di annullare totalmente, nel caso di forti infestazioni, la produzione.
La semina tardiva, in coincidenza del periodo più piovoso dell’anno, agevola la germinazione del seme in quanto lo stesso, di elevate dimensioni, richiede molta acqua per imbibirsi e rigonfiare (l’assenza di precipitazioni consistenti, nei 15-20 giorni successivi la semina, comporta un aumento considerevole delle fallanze).

Semina delle fave

Dopo circa 20-30 giorni dalla semina il seme germinava e dopo circa altri dieci giorni emergeva dal terreno la giovane piantina che veniva accompagnata, fino alla conclusione del ciclo vegetativo, con ripetute lavorazioni manuali, con l’uso di animali e attrezzi vari (al fine di estirpare le infestanti e rincalzare il terreno nei pressi delle giovani piantine) e successivamente con l’uso di zappe si effettuavano almeno altri due passaggi (la “zappata” e la “ribbinata”).
Con la prima zappatura, effettuata nei mesi di febbraio-marzo, si esegue la rincalzatura delle piante (“si accucciano”) cioè si accumula del terreno alla base del fusto della pianta, nella zona del colletto; questa pratica ha la funzione di stimolare l’emissione di germogli laterali; il ripasso effettuato nel mese di aprile (ad allegazione dei fiori già avvenuta) ha essenzialmente la funzione di rinnovare il terreno nei pressi della pianta è di ridurre le perdite di acqua per evaporazione in modo che la pianta possa usare questa importante risorsa a favore del rigonfiamento dei frutti.
Nella seconda quindicina del mese di maggio si iniziavano le operazioni di mietitura delle fave con l’ausilio di falci a mezzaluna procedendo a macchia di leopardo (tagliando le piante man mano che i baccelli perdono la loro naturale turgidità e tendono ad abbassarsi verso il basso (“cadiiru i favi”) – la mietitura precoce porta all’ottenimento di semi corrugati con riduzione della capacità germinativa), le parti verdi mietute si mettevano ad asciugare in piccoli covoni (“manate”) lungo i filari e dopo 2-3 giorni al massimo si raccoglievano e si legavano assieme (utilizzando delle fibre vegetali “liami di disu”opportunamente inumidite), in numero di 3-4 a formare dei covoni più grandi (“regni”), che venivano messi in posizione verticale (“additta”), per evitare che eventuali precipitazioni potessero danneggiare il prodotto a contatto con il terreno.
In attesa che il prodotto si asciugasse si preparava l’aia (“l’aria”), si provvedeva a pulire un appezzamento di terreno posto in zone bene esposte al vento, lasciato all’uopo incolto in modo tale che la superficie del terreno fosse compatta, di idonea superficie (in base al prodotto da trasportarvi); pulito e spianato il terreno, “si assulava l’aria”, cioè vi si spargeva della paglia e vi si buttava sopra dell’acqua in modo tale che la paglia cosparsa aderisse alla superficie del terreno a formare una superficie abbastanza compatta.
Persa la maggior parte dell’umidità, quando i semi risultavano asciutti al punto giusto, si iniziava il trasporto dei covoni nell’aia per la successiva trebbiatura e pulitura; il trasporto (“carriari i regni”), si realizzava nelle ore notturne o nelle prime ore del giorno al fine di evitare la perdita di prodotto data la facile deiscenza dei baccelli secchi dei legumi (l’umidità della notte permetteva di ridurre le perdite) legando i covoni sui muli o utilizzando rudimentali attrezzature in legno prive di ruote simili a carri (“a straula”) trainata dagli animali; “si carricava l’aria”, cioè si depositavano i covoni all’interno dell’aia in attesa della trebbiatura (“pisatura de favi”).
La trebbiatura, cioè la sgranatura dei semi dai baccelli, risultava un’operazione molto lunga; si effettuava in genere nelle ore più calde della giornata quando il prodotto “scuzzola” (il caldo favorisce la sgranatura dei semi dal baccello), facendo girare sull’aia uno o più animali e rivoltando (“si girava l’aria”) più volte il prodotto in modo tale che i semi già sgranati, più pesanti, andassero verso il fondo e la paglia assieme ai legumi ancora da sgranare venissero in superficie.
Terminata la sgranatura dei semi si iniziava a separare la paglia dai legumi; la grande maestria degli operatori, con il solo aiuto del vento e l’ausilio di forconi (facendo attenzione a non andare troppo in profondità per evitare di sporcare il prodotto con il terreno) e pale di legno, iniziavano con il dividere l’aia in almeno due parti (“taghiavinu l’aria”) e lavorando controvento a formare come dei corridoi (“curritura”), allontanavano la paglia (“si caccia fori a furba”) e la parte basale legnosa della pianta (“i sgroppa”) dal prodotto finito, periodicamente si raccorciava l’aia (“arrunghiava”) e si aggiungevano altri covoni.
Il lavoro nell’aia anche se molto lungo (a volte si aspettava per diversi giorni l’arrivo del vento) e faticoso (fatica quasi sempre aggravata dall’enorme calura estiva) rappresentava un momento di grande festa in quanto dopo un anno si stava per ottenere il frutto del duro lavoro.

Raccolta delle fave

L’attività, di tipo rituale, iniziava con la frase “evviva Maria, nti l’aria c’è Gesù, evviva lu Santissimu Saramentu”, continuava accompagnata da canti e preghiere ed impegnava tutti, grandi e piccini.
Allontanata la paglia al centro dell’aia rimaneva il cumulo di fave che prima di essere messo nei sacchi veniva passato in un primo vaglio (“crivu dill’aria”) al fine di separare eventuali impurità e residui di terreno (scalfito dal passaggio degli animali o dall’uso dei forconi), semi piccoli, striminziti (“sgranumi e suttacrivi”) o macchiati destinati all’alimentazione del bestiame.
Il prodotto raccolto veniva quantificato, con l’uso di utensili quali “u tumminu, u munnieddu, a carozza” al fine di esprimere la produzione in “sarmi” (unità volumiche cui corrispondeva un dato peso), o pesato con l’utilizzo di una stadera “a statia” (bilancia con funzionamento a leva) ed avviato, dopo aver sottratto la quota da destinare all’utilizzo familiare (le fave accantonate per essere destinate alla cucina familiare venivano subito, ad opera delle donne di casa, schiacciate – “pizzicate” – con l’aiuto di due pietre dure – “du cuticchi di sciumi” – in questo modo non si sviluppava il tonchio, parassita spesso presente nel loro interno) ed aziendale (alimentazione del bestiame e semina), alla vendita.
L’intera produzione veniva acquistata da mediatori locali “i sinzali” che procedevano alla selezione dimensionale utilizzando grossi vagli circolari appesi alle travi in legno dei magazzini – “i crivi de favi” – e rivendevano, per uso alimentare, il prodotto selezionato, per uso zootecnico lo scarto “suttacrivu”.
Rispetto a quanto sopra descritto, oggi poco è cambiato; infatti, difficile se non impossibile risulta: effettuare la semina con l’uso di seminatrici; impossibile risulta effettuare la mietitura e la contemporanea trebbiatura con l’utilizzo di macchine (bassi palchi fiorali, prodotto che si sbriciola al passaggio nei battitori delle trebbiatrici).
Sono oggi agevolate e meccanizzate operazioni quali quelle: di preparazione del terreno (aratura alla profondità di circa 30-40 cm, onde favorire l’approfondimento della radice fittonante dalla quale si dipartono le radici laterali – che ospitano i tubercoli con i batteri simbionti – in modo da meglio utilizzare le risorse idriche e nutritive profonde e successivi ripassi di affinamento e preparazione del letto di semina), di apertura dei solchi ove depositare i semi (si utilizzano assolcatori a 2 o 3 vomeri con distanza interfilare 1,30-1,50 m tale da consentire la scerbatura interfilare con motozappa); di trasporto dei covoni con l’utilizzo di rimorchi agricoli, di sgranatura dei semi effettuata schiacciando i covoni con piccole trattrici, di setacciatura con l’utilizzo di vibro separatori elettrici.
Una delle operazioni, forse, oggi la più complicata da realizzare, è rappresentata dalla separazione tradizionale della paglia dai legumi stante la difficoltà di trovare manodopera capace di svolgere tale lavoro (in assenza di manualità qualcuno si è attrezzato con piani vibranti e grossi aspiratori).
Nell’entroterra siciliano la fava è sempre presente in tutti gli orti familiari ove essenzialmente si raccoglie il prodotto verde destinato al consumo fresco.
La fava viene coltivata in tutti i tipi di terreno, come tutte le piante predilige quelli di medio impasto, rifugge i terreni sciolti e poveri (“terri liggii” ove si può coltivare con discreti risultati produttivi la lenticchia nera e la cicerchia) sono altresì sconsigliati quelli argillosi con elevato tenore di calcare (il prodotto secco ottenuto “non è cucivuli”, cioè perde una delle caratteristiche principali di questa fava quella di essere di facile cottura).
La fava di Leonforte, selezionata nell’entroterra siciliano, ben si adatta alle condizioni climatiche caratteristiche dell’area di coltivazione, caratterizzate da precipitazioni concentrate nel periodo autunno-invernale (mediamente si superano i 500 mm di precipitazione) e da climi abbastanza miti (raramente la temperatura scende al di sotto degli 0°C, rare sono le precipitazioni nevose anche nelle zone collinari e le gelate tardive)
La fava (sia come granella verde che secca), per le caratteristiche sia nutrizionali che organolettiche e per la molteplicità di utilizzi nella cucina mediterranea negli ultimi anni è stata riscoperta dai consumatori ed attualmente la produzione locale non è sufficiente a soddisfare la domanda.
Relativamente alla produzione, mediamente si aggira a circa 7-8 T/Ha nel caso di raccolta del prodotto verde (dato che può essere oggetto di sensibile aumento nel caso di coltura irrigua); mentre nel caso del prodotto secco nelle migliori condizioni si ottengono produzioni dell’ordine di 1,5-2 T/Ha (prodotto grezzo, dato che va scremato togliendo il prodotto striminzito, macchiato, di piccolo calibro, etc.) e produzioni vendibili di poco superiori alla tonnellata per ettaro.
In cucina, la fava di Leonforte viene utilizzata per la preparazione di diversi piatti tipici quali:

  1. con le fave verdi (“favaiane”), si preparano:

* la frittedda, con fave tenere, cipollotti, pancetta e pepe
* la pasta con le fave, la pasta cucinata nel brodo di cottura delle fave, si condisce con aromi vari;
* favaiani squadati, fave verdi cucinate e condite con olio ed aceto;

  1. con le fave secche si preparano:

* i favi pizzicati, zuppa di sole fave con aromi;
* favi vigghiuti, zuppa di fave con verdure, olive nere e carni specialmente di maiale insaporita da aromi vari;
* il macco, purea di fave sgusciate con pepe, finocchietti e bietole selvatiche, utilizzato per condire la pasta, bruschette, etc.;
* favi ‘ngriddi, fave bollite assieme a verdure quali cardi e bietole selvatici, condite con aglio e spezie;
*favata, con fave secche, pancetta, passata di pomodoro, cipolla e prezzemolo;
*favi sicchi a ghiotta, con fave secche sgusciate ed un soffritto di cipolla, pomodoro, basilico e peperoncino.

Il prodotto viene anche, come nel passato, impiegato nella produzione di sfarinati a base di legumi (assieme alla fava si utilizzano legumi quali la cicerchia, il cece ed il pisello) per la realizzazione della cosiddetta “frascatula” un tipico misto per polenta da preparare assieme verdure o carni suine.
Molto importante sarebbe, per venire incontro alle esigenze dei consumatori ed alle nuove tendenze di mercato, la possibilità di realizzare, partendo dalla materia prima fava di Leonforte (sia allo stato verde che secco), prodotti surgelati, precotti o comunque trasformati (conserve, etc.); si amplierebbe sicuramente così la fascia dei consumatori che oggi rifuggono il prodotto anche per il notevole tempo richiesto nella preparazione domestica delle varie pietanze.
Oggi i remunerativi prezzi di mercato del prodotto, le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro (in attività extra agricole) e l’assenza di altri sbocchi occupazionali, rappresentano condizioni che in prospettiva potranno far aumentare le superfici investite e le produzioni vendibili a favore di una sempre più ampia platea di consumatori.
Altri fattori quali l’associazionismo e l’adesione a progetti di salvaguardia della biodiversità, delle tradizioni e dei sapori locali, nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione (slow-food, born in Sicily, etc.), spero possano salvaguardare la coltura ed il territorio mantenendo ed aumentando gli attuali volumi di produzione.
Rispetto al passato i pochi, appassionati ed ostinati, produttori rimasti puliscono e selezionano manualmente (controllando i singoli legumi) l’intera produzione (spesso già ordinata prima della raccolta) in attesa della vendita.
I consumatori (famiglie o ristoratori) acquistano il prodotto direttamente dai produttori (anche con commercio elettronico e spedizione tramite corriere) o presso rinomati negozi specializzati nella vendita di prodotti tipici.

Fave confezionate

Angelo Calì, dottore agronomo e appassionato agricultore, è titolare di azienda agricola nell’entroterra siciliano, con indirizzo prevalente nella produzione di cereali (frumento duro) e legumi tipici (fava larga di Leonforte, lenticchia nera di Leonforte, ceci, compreso il cece nero siciliano, e cicerchia – impiegati anche, come sfarinati, nella preparazione di un tipico misto legumi per polenta). Sito azienda agricola: http://www.leonforteagricola.it/

Orticoltura

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Pietro Siviero, Luciano Trentini – Edagricole

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