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di Marco Martini

 Bufali
Allevamento di bufale – Azienda Improsta – Eboli (SA) (foto G. Accomando)

CARATTERISTICHE DEL LATTE DI BUFALA
Esistono due tipi di Bufalo, quello Asiatico e quello Africano: il primo (Bubalus bubalis) è adatto ad ambienti umidi e ha una buona capacità produttiva, mentre quello Africano (Syncerus caffer caffer), adatte ad ambienti aridi e con ridotte capacità produttive. Le bufale allevate in Italia sono di razza “Mediterranea Italiana”, appartenente al genere Bubalus, specie bubalis, sottospecie River. Fu introdotta (anche se non tutti gli studiosi concordano) nel nostro paese alla fine del VI secolo, proveniente dall’Ungheria in seguito alle invasioni barbariche. Per secoli è stata allevata nelle zone paludose dell’Italia centro-meridionale per la produzione di latte, carne e lavoro. Questa specie mostra infatti elevate capacità di adattamento alle condizioni ambientali sfavorevoli grazie alla sua elevata rusticità ed inoltre è marcatamente longeva: una bufala può produrre per più di 10 anni. Sotto l’aspetto morfologico il bufalo si presenta più raccolto e più tozzo del bovino. La pelle è spessa e pigmentata, provvista di peli neri e radi nei soggetti adulti, presenta uno scarso dimorfismo sessuale (poche differenze fra i soggetti dei due sessi). La consistenza ha subito un incremento considerevole negli ultimi 10 anni passando dai 108.000 capi nel 1994 ai 223.000 nel 2003. La produzione media si attesta sui 2.300 kg pro-capite con un contenuto in grasso dell’8,38% e il 4,8% di proteine. Il latte, di ottima qualità, è totalmente trasformato, con una resa del 25%, in un prodotto caseario molto apprezzato sul mercato: la mozzarella. Il miglioramento genetico di questa specie verte, oltre ad incrementare la produttività (quantità e qualità del latte), a migliorare alcuni caratteri riproduttivi come: anticipazione della pubertà, diminuzione dell’intervallo interparto, destagionalizzazione dei parti. Questi obiettivi possono essere raggiunti tramite un approccio di tipo classico, basato su prove di progenie, oppure con l’impiego di biotecnologie innovative come l’Embrio transfer e il prelievo degli oociti unito alla fecondazione in vitro.
Come la vacca da latte, la bufala, utilizzata originariamente come animale da traino, è tradizionalmente sfruttata in Italia per la produzione di latte. Ogni 100 litri di latte prodotto in Italia solamente 1,2 è latte di bufala. Per le sue caratteristiche qualitative e di composizione viene utilizzato unicamente per la trasformazione in formaggio e in particolare nella ben nota mozzarella, oltre che in burro e ricotta. E’ un latte caratterizzato da un’elevata percentuale di grasso, che può raggiungere valori anche del 10-12% e di proteine percentualmente inferiori solo a quelle riscontrabili nel latte di capra. E’ proprio per queste caratteristiche qualitative che il latte di bufala garantisce rese quasi doppie rispetto a quelle ottenibili con il latte vaccino (da un quintale di latte di bufala si ottengono circa 25 kg di formaggio contro i 13-14 ottenibili con il latte vaccino). Degna di nota anche la composizione acidica dei grassi di questo latte: si riscontra una prevalenza di acido oleico fra gli insaturi e di palmitico tra i saturi. In tabella 1 è possibile osservare le principali differenze fra il latte di bufala e quello vaccino.

 

 Latte di bufala

 Latte vaccino

 Grassi (g/100ml)

 6-9,5

 3,7-3,9

 Proteine (g/100ml)

 4,4-4,8

 3,2-3,4

 Caseine (g/100ml)

 3,9

 2,6-2,7

 Lattosio (g/100ml)

 4,7-4,9

 4,8-5

 Ceneri (%)

 0,85

 0,73

 Calcio (mg/100g)

 180

120 

 Sodio (mg/100g)

 40

 50

 Fosforo (mg/100g)

 130

 93

Tabella 1: Composizione media del latte crudo.
Fonte: Libro bianco sul latte e i prodotti lattiero caseari (modificata)

LA MOZZARELLA
In origine il nome “Mozzarella” era riservato al prodotto ottenuto dal latte di bufala ma ormai da tempo è applicabile anche al formaggio fresco a pasta filata prodotto dal latte di vacca, di tipica tradizione italiana. Ha principalmente forma di ovoli di peso variabile da pochi grammi a quasi mezzo chilogrammo ma viene prodotta anche in forma di treccia o di mattonella soprattutto per gli usi di cucina. La tecnologia di produzione prevede due strade possibili per ottenere l’acidificazione dl latte in caldaia: la via microbiologica mediante l’aggiunta di starter selezionati della specie S. thermophilus, o la via rapida, mediante l’aggiunta di acidi organici (citrico, lattico, acetico). La coagulazione avviene a 32-36°C, previa aggiunta di caglio o di coagulanti di origine microbica. Una prima rottura riduce il coagulo in cubi di grosse dimensioni e la seconda li porta alle dimensioni di una noce. La cagliata ottenuta per acidificazione biologica deve raggiungere una specifica acidità per poter essere filata e allo scopo viene tagliata in blocchi e mantenuta a riposare sotto siero per 2-3 ore prima di passare al processo di filatura e formatura. La cagliata ottenuta per acidificazione rapida è invece immediatamente pronta per la filatura. I blocchi di cagliata vengono tritati grossolanamente e poi passano in un bagno d’acqua bollente a 80-90°C dove l’organizzazione del coagulo cambia struttura assumendo l’aspetto caratteristico della pasta filata. La pasta viene quindi forzata negli alveoli delle macchine formatrici dove assume la forma e la dimensione prevista. Dopo la formatura la mozzarella cade in un bagno d’acqua gelida a 4-6°C per il rassodamento rapido e il successivo confezionamento. La salatura della mozzarella può essere ottenuta per immersione in salamoia, per aggiunta di sale durante la filatura o per assorbimento attraverso il liquido di governo. La mozzarella deve poi essere obbligatoriamente confezionata in un imballaggio protettivo.

 Mozzarella di bufala
Mozzarella di bufala

IL PROBLEMA DELLE DIOSSINE
Con il termine “diossine” si intendono un gruppo di contaminanti chimici con caratteristiche chimiche e proprietà analoghe: le policlorodibenzodiossine (PCDD) e i policlorodibenzofurani (PCDF). A causa delle caratteristiche simili di tossicità, a queste classi di composti si associano usualmente anche i policlorobifenili (PCB). Le diossine sono generate da tutti i processi di combustione e manifestano la loro attività tossica anche a bassissime concentrazioni. Sfortunatamente le molecole di questi composti sono particolarmente stabili (sono decomposte solo per combustione con temperature oltre 800°C) e quindi una volta immesse nell’ambiente si diffondono ovunque inquinando tutti i cicli biologici. Attualmente la fonte principale d’emissione è rappresentata dall’incenerimento dei rifiuti e in particolare dei rifiuti solidi urbani (RSU), che produce diossine quando il processo di combustione dei materiali contenenti cloro avviene in carenza di ossigeno e a temperature inferiori a 800°C. Di contro, i PCB sono stati a lungo volontariamente sintetizzati e utilizzati nella produzione di adesivi, fluidi dielettrici, plastificanti. La loro produzione fu abbandonata quando ne venne accertata l’elevata tossicità. Permangono comunque i problemi legati alla dismissione e sostituzione delle apparecchiature costruite negli scorsi decenni e contenenti PCB. Aria, acqua e suolo sono contaminati da diossine e PCB ma la fonte d’esposizione più importante per gli organismi animali e per l’uomo è risultata essere quella alimentare. L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato le diossine come molecole riconosciute cancerogene per l’uomo. Il Comitato Scientifico dell’Alimentazione umana (SCF) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) confermano le implicazioni riscontrate sul sistema immunitario e riproduttivo umano da parte delle diossine, persino a livelli notevolmente inferiori alla soglia di cancerogenicità che per l’uomo è stata stimata essere pari a 10 picogrammi per chilogrammo di peso corporeo per giorno (1 picogrammo = 1 miliardesimo di milligrammo). Per questa ragione l’OMS ha ritoccato, due volte negli ultimi 10 anni, il valore della dose giornaliera accettabile (DGA) per le diossine fissandolo nel 1990 a 10 e nel 1998 a 1 picogrammo per chilogrammo di peso corporeo.

 Diossine

Bibliografia
Gianvincenzo Barba “Libro Bianco sul latte e i prodotti lattiero caseari” INRAN – Assolatte, 2006

Marco Martini, laureato in Scienze e Tecnologie Alimentari presso la Facoltà di Agraria di Firenze, è laureando al corso di laurea magistrale in Gestione della qualità dei prodotti alimentari.

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