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di Ezio Casali

Una delle piante più note e conosciute anche a chi ha scarsa esperienza in quel particolare settore della botanica che è l’utilizzo gastronomico delle piante spontanee è il tarassaco (Taraxacum officinale), molto comune e conosciuto con diverse denominazioni quali dente di leone, dente di cane, soffione, cicoria selvatica, cicoria asinina, grugno di porco, ingrassaporci, insalata di porci, pisciacane, lappa, missinina, piscialletto, girasole dei prati ed altri ancora.
Il nome deriva, secondo alcuni, dal greco taraxacos (io guarisco, per le già note nell’antichità proprietà medicinali), da altri dal greco tarasso (scompiglio, per il diffondersi scombinato dei pappi, i ciuffi bianchi che assumono la caratteristica forma rotonda, al minimo alito di vento), mentre per qualcuno l’etimologia del nome è legata al termine arabo tarahsaqun (appunto, dente di leone).
Presente praticamente in tutta Italia, dalla pianura fino ai 1.700 – 2.000 m di altezza, è in grado, vista la sua rusticità, di crescere in ambienti e terreni assai diversi assumendo spesso la caratteristica di pianta sinantropica e quindi facilmente rinvenibile anche in luoghi fortemente modificati  dall’uomo.

La pianta viene utilizzata in tutte le sue parti, dalla radice alle foglie, ai boccioli ed ai fiori. La radice, per le sue caratteristiche coleretiche (stimolante la secrezione della bile), colagoghe (favorenti il passaggio della bile nell’intestino e quindi la digestione dei grassi), epatoprotettive, diuretiche, depurative e stimolanti l’appetito, antireumatiche, leggermente lassative viene utilizzata sia fresca che essiccata soprattutto in erboristeria. Un tempo veniva utilizzata, previa tostatura, per la preparazione di un surrogato del caffè e può essere consumata anche cotta, condita con un buon olio extravergine di oliva.
Va ricordato che il tarassaco è inserito, secondo il Regio Decreto 26 maggio 1932 n. 772 nell’elenco delle piante dichiarate officinali e che è possibile detenere a livello familiare un massimo di 5 Kg di radici essiccate.
Anche le foglie possiedono le stesse caratteristiche viste prima, e possono essere utilizzate sia fresche per la preparazione di insalate (magari “colorate” di giallo con i petali) che lessate per risotti, torte salate, ecc.
Il periodo di raccolta, così come quello di fioritura, soprattutto nelle zone a clima più temperato può arrivare a coprire praticamente tutto l’anno, ritrovandosi spesso nello stesso luogo piante a diversi stadi di sviluppo.

Una particolarità da sottolineare è il notevole dimorfismo morfologico delle foglie, che possono presentare diversi livelli di lobatura fino a presentarsi roncinate: a questo proposito vanno preferite quelle con la lamina fogliare più sviluppata (quindi con lobatura poco accentuata), in modo da poter gustare al meglio le parti tenere (la nervatura centrale, per ovvi motivi, risulta più consistente e quindi più dura alla masticazione).

tarassaco pianta medicina
A sinistra pianta intera, a destra esempi di dimorfismo fogliare (immagini da Wikimedia commons)

E’ opportuno utilizzare sempre le foglie più giovani, preferendo per le foglie un po’ più “vecchie” e quindi leggermente più dure e coriacee le preparazioni che prevedono la scottatura oppure, se piace, per la preparazione di infusi.
I fiori, preparati in infuso, possono essere utilizzati per schiarire le lentiggini, mentre in cucina possono essere pastellati e quindi fritti (la pastella si può preparare con 150 gr di farina, 50 gr di zucchero, 2 uova, i cui albumi vanno montati a neve, 1 cucchiaio di vino bianco secco ed uno di brandy e olio di arachidi quanto basta). Il lattice che geme dai fusti cavi può essere utile per il trattamento delle verruche.
Dei fiori va anche detto che sono buoni fornitori di nettare e di polline, per cui possiamo considerare il tarassaco una pianta mellifera dalla quale si può ottenere un ottimo miele uniflorale giallo vivo, dal profumo e sapore intensi e che cristallizza con una certa facilità in cristalli molto fini che conferiscono al prodotto una consistenza morbida e cremosa.
Si può anche produrre un “falso” miele di tarassaco, cioè una gelatina ottenuta facendo bollire i fiori con zucchero (in rapporto 1 a 2), chiodi di garofano e succo di limone fino ad ottenere la consistenza desiderata.
Particolare è l’utilizzo dei boccioli giovani ancora chiusi che possono essere conservati, a mò di capperi, sotto sale, sott’olio o in aceto. Per preparali in questo modo i boccioli possono essere lessati in acqua e sale, fatti asciugare bene e, una volta messi nei vasetti, coperti di acqua e aceto fatti precedentemente bollire; si aggiunge uno spicchio d’aglio e si copre il tutto con olio extravergine di oliva.

tarassaco fiori
A sinistra bocciolo giovane, a destra bocciolo non più utilizzabile per la conservazione (immagini da Wikimedia commons)

E’ anche possibile iniziare, per coloro che vogliono avere a sempre a disposizione piante da utilizzare in cucina, una coltivazione domestica di tarassaco; per iniziare tale attività è possibile utilizzare le radici, le quali hanno una spiccata capacità di dare origine a nuove piante anche quando vengono tagliate in piccoli pezzi e messe nelle condizioni di originare nuovi germogli.

Si ricorda di porre sempre la massima attenzione rispetto ai luoghi di raccolta: a tale riguardo si può consultare l’articolo “Dai campi alla tavola: le piante spontanee in cucina”.
Si ricorda inoltre che le informazioni riportate hanno solo carattere illustrativo, non sono consigli medici e non possono sostituire una diagnosi ed una cura effettuate da un medico.

Ezio Casali, iscritto all’Albo Provinciale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici laureati di Cremona, insegna presso l’Istituto Tecnico Agrario Statale “Stanga” di Cremona. Si occupa di autocontrollo, soprattutto negli agriturismi, e di agricoltura multifunzionale. Curriculum vitae >>>

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