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di Francesco Teri

Tra le attività agricole, la zootecnia intensiva è una di quelle con il maggiore impatto ambientale; uno degli aspetti problematici è la produzione di grosse quantità di reflui, soprattutto in forma di liquami, concentrata nei siti di allevamento, che fa sì che si possa parlare di sorgenti di inquinamento puntiforme piuttosto che di inquinamento diffuso, come avviene invece per la maggior parte delle attività agricole. In particolare, tra i componenti dei reflui potenzialmente nocivi all’ambiente, sta generando molta preoccupazione l’azoto (N).

Il problema dell’inquinamento da azoto

I liquami contengono infatti livelli piuttosto elevati di azoto, in forma prevalentemente organica e ammoniacale, in larga parte biodisponibile ma anche molto mobile nel suolo sotto forma di ione ammonio (NH4+) e ione nitrato (NO3-) derivante da processi ossidativi. Oltre al problema della dispersione in atmosfera di ammoniaca (NH3), esistono dunque anche problemi di dilavamento e conseguente contaminazione dei corpi acquiferi sotterranei da parte dei nitrati, con conseguenze nefaste da un punto di vista ambientale generale (eutrofizzazione delle acque) e della salute umana (elevati livelli di nitrati nelle acque potabili sono associati al rischio di metaemoglobinemia, pericolosa soprattutto per i neonati).
Queste considerazioni hanno portato all’emanazione della Dir. 91/676/CEE, nota come Direttiva nitrati, tardivamente recepita dalla legislazione italiana, che con il D.M. 07/04/2006, n. 209, ha fissato dei vincoli stringenti allo spandimento in campo dei liquami, pratica tradizionalmente seguita per la loro gestione, compresi dei limiti quantitativi che sono di 340 kg di azoto di origine zootecnica per ettaro all’anno nelle zone ordinarie e 170 kg per ettaro all’anno nelle zone classificate come vulnerabili ai nitrati (ZVN), che interessano una parte consistente della Pianura Padana. Qui si trovano aree caratterizzate da una zootecnia molto intensiva, dove le quantità di liquame, e conseguentemente di azoto, prodotte per unità di superficie utilizzabile per lo spandimento sono anche molto al di sopra delle soglie ammesse. Questa sproporzione, con l’impossibilità di spandere nei terreni aziendali tutti i reflui prodotti, sta mettendo in difficoltà molte aziende, che non sanno come gestire le eccedenze.

Impianti di stoccaggio

Le possibili soluzioni

Evidentemente il modello di zootecnia intensiva diffuso in Italia come in molte altre parti del mondo presenta caratteri intrinseci che ne rendono difficile l’abbattimento dell’impatto ambientale. É comunque possibile individuare delle strategie che permettano alle aziende almeno di ridurre l’inquinamento causato entro i livelli imposti dalle normative. Di fronte a un rapporto troppo elevato tra azoto prodotto e superficie disponibile, le soluzioni applicabili consistono o nel ridurre il numeratore (azoto) o nell’aumentare il denominatore (superficie); entrambe non sono facilmente realizzabili.
Una strada ovvia per ridurre la produzione di azoto è quella di ridurre il carico di bestiame allevato, ma ciò comporterebbe cali di redditività tali da portare alla chiusura di molte aziende. É però possibile apportare delle migliorie tecniche a livello zootecnico, incrementando l’efficienza d’uso dell’azoto da parte degli animali, il che vorrebbe dire ridurne l’escrezione: si può lavorare in questa direzione sia agendo sulla frazione proteica della dieta (calibrazione del tenore proteico in base alle reali esigenze, somministrazione di proteine con composizione amminoacidica appropriata) sia incrementando la produttività animale, con interventi di vario tipo (genetico, alimentare, sanitario, gestionale) che diminuiscano la quantità di proteina di mantenimento richiesta per unità di prodotto. Nonostante si possano ottenere in questo modo riduzioni non insignificanti, rimane comunque difficile abbassare in maniera decisiva le quantità di azoto prodotte.
D’altro canto, in mancanza di una gestione degli spandimenti a livello territoriale, lungi dall’essere attuata in modo organico, per la singola azienda risulta estremamente gravoso procurarsi superficie extra-aziendale disponibile per l’applicazione al suolo dei liquami, a causa degli alti costi di trasporto di una matrice molto diluita qual è il liquame (per spostare un quantitativo di azoto limitato occorre spostare una massa ingente di acqua), dei vincoli normativi a cui sono sottoposti i terreni riceventi (legati all’elaborazione di un Piano di Utilizzo Agronomico), dei costi di concessione allo spandimento (in alcuni casi prossimi a quelli dell’affitto).
In questo contesto appare inevitabile in molte situazioni ricorrere a forme di trattamento del liquame che, trasformando il refluo in uscita dall’allevamento in un prodotto qualitativamente diverso, permettano di modificare i termini della questione. Un ruolo importante nell’applicazione di questi trattamenti viene a essere giocato dalla digestione anaerobica con produzione di biogas, un processo ormai piuttosto diffuso nelle aziende zootecniche, almeno quelle di maggiori dimensioni. La digestione anaerobica di per sé non riduce il tenore azotato dei reflui né il loro volume, ma rende possibile la produzione di energia elettrica e termica impiegabile nei processi di trattamento a valle, frequentemente energivori, e un ricavo in termini monetari che può rendere sostenibile un investimento in impianti di trattamento adeguati.

Attrezzature per il trattamento

Le varie forme di trattamento

I trattamenti per la gestione dell’azoto contenuto nei reflui possono essere classificati secondo la modalità d’azione (fisica, chimica o biologica) oppure secondo la finalità; due infatti possono essere gli obiettivi fondamentali: ridurre il carico azotato trasferendone una parte in atmosfera in forme non nocive (quindi riducendo il quantitativo di azoto da gestire; realizzabile perlopiù con processi biologici) oppure recuperare l’azoto in matrici concentrate e facilmente trasportabili (quindi permettendo un incremento della superficie per l’applicazione al suolo; i processi chimici e fisici mirano in genere a questo).
Tra i trattamenti di tipo fisico meccanico che mirano al recupero si può citare anzitutto la separazione solido-liquido, processo già piuttosto diffuso nelle aziende zootecniche, che facilita per molti versi la gestione dei reflui e può risultare molto utile anche ai fini della gestione dell’azoto, in quanto separa una frazione solida in cui questo si concentra da una liquida che ne è impoverita. Ciò di per sé difficilmente risolve il problema, ma può rappresentare un primo passo fondamentale a monte di trattamenti successivi, riferiti sia alla frazione solida che a quella liquida. Gli strumenti impiegabili sono vari, alcuni già diffusi nella pratica aziendale (sedimentatori, flottatori, vagli, separatori a cilindro rotante con rulli, separatori a compressione elicoidale, centrifughe, nastropresse), altri proposti ma applicati solo a livello pionieristico (filtropresse, soil filters, tubi geotessili filtranti).
Un trattamento più avanzato, che può trovare posto a valle della separazione solido-liquido, è la filtrazione con membrane, che è sempre un processo fisico meccanico di separazione dell’acqua, ma molto più spinto, in quanto il liquame viene fatto passare in pressione attraverso fori di diametro inferiore a 10 μm, ottenendo un concentrato, con gran parte dell’azoto in un volume limitato, e un permeato che in alcuni casi ha una purezza vicina a quella dell’acqua, non sufficiente di solito per permetterne lo scarico in corpi idrici superficiali, ma tale da ipotizzare usi interni all’azienda. Questi sistemi, distinti soprattutto in base al diametro dei fori (microfiltrazione, ultrafiltrazione, nanofiltrazione, osmosi inversa, elettrodialisi), derivano dal settore industriale, e la loro applicazione in ambito zootecnico è a livello iniziale e comunque frenata dagli elevati costi.
Lo stesso concetto di allontanamento dell’acqua è alla base delle tecniche di evaporazione, che però si basano su un principio fisico termico: le alte temperature fanno evaporare l’acqua il più possibile, lasciando un prodotto con elevata concentrazione di sostanza secca, possibilmente commercializzabile come fertilizzante. L’azoto può essere parzialmente volatilizzato in forma ammoniacale, e in questo caso è necessario catturarlo con sistemi come il lavaggio acido, producendo ad esempio solfato d’ammonio (NH4)2SO4, anch’esso valorizzabile come fertilizzante. Le soluzioni tecniche maggiormente proposte sono l’essiccazione su nastri, di cui esiste già qualche applicazione a livello aziendale, e la concentrazione sottovuoto.
Un altro metodo che viene studiato con interesse è lo strippaggio, che si basa un principio diverso, in quanto l’obiettivo non è allontanare acqua, ma rimuovere selettivamente azoto in forma ammoniacale, con un meccanismo fisico termico (volatilizzazione per aumento di temperatura) o chimico (innalzamento del pH tramite sostanze alcalinizzanti); anche qui uno scrubber acido fissa l’ammoniaca come solfato d’ammonio, mentre il liquame residuo, fortemente impoverito di azoto, presenta minori problemi di utilizzo agronomico. Anche in questo caso i costi rendono per il momento poco proponibile un’applicazione in contesti zootecnici.
Quest’ultima considerazione vale anche per la precipitazione della struvite, processo chimico in cui tramite innalzamento del pH fino a un valore ottimale di 9 ed eventuale aggiunta di magnesio si fa precipitare il sale in oggetto, NH4MgPO4·6H2O, ottenendo una rimozione di azoto e fosforo simultaneamente. La struvite può avere valore come fertilizzante, ma al momento in Italia non ha un proprio mercato.
Nel generale interesse nato recentemente intorno al problema della gestione dell’azoto sono stati proposti anche altri metodi di tipo chimico e fisico, senza che per il momento ci siano reali prospettive di applicazione, come l’elettrolisi, che può rimuovere azoto come N2 gassoso, e lo scambio ionico, che permette di trattenere azoto su resine o su minerali come la zeolite. Un discorso a parte va fatto per le tecniche di valorizzazione energetica (gassificazione, pirolisi, combustione completa), che non mirano propriamente alla gestione dell’azoto, ma rimangono possibili alternative, peraltro non facilmente applicabili, per la gestione dei reflui.
I trattamenti microbiologici sfruttano il metabolismo di vari microrganismi per trasformare buona parte dell’azoto dei reflui in N2 gassoso, sostanza innocua e chimicamente inerte che costituisce la gran parte dell’atmosfera terrestre. La nitro-denitrificazione a fanghi attivi tradizionale è, tra tutti i vari metodi proposti per la gestione dell’azoto, quello più collaudato e diffuso, prescindendo dalla separazione solido-liquido; i costi non sono però trascurabili. Per migliorare l’efficienza e superare alcuni limiti di questa tecnica sono in studio diversi sistemi alternativi, alcuni dei quali in fase ancora sperimentale: si possono citare la nitro-denitrificazione SBR, il processo BABE, il processo DEPHANOX, i bioreattori a membrana, i processi SHARON o HEMINIFF seguiti dall’ANAMMOX, il processo CANON, il processo OLAND.
Altro trattamento di tipo biologico è la fitodepurazione, realizzabile attraverso sistemi quali le zone umide artificiali o il lagunaggio con alghe o lenticchie d’acqua: mentre in quest’ultimo caso l’azoto viene largamente concentrato nella biomassa vegetale, nelle zone umide artificiali si sviluppa una sinergia tra piante, che accumulano una parte dell’azoto, e microrganismi, che svolgono azione di nitro-denitrificazione, oltre all’adsorbimento di azoto sul substrato poroso di crescita delle piante. Le zone umide artificiali, in cui si realizza dunque una combinazione tra rimozione e recupero dell’azoto, rivestono un forte interesse in prospettiva, ma come trattamento avanzato da porre a valle di altri.
Per chiudere questa panoramica si può ricordare il compostaggio, processo a base biologica che non si rivolge specificamente alla gestione dell’azoto, ma costituisce un’opzione gestionale perseguibile, anche se ormai con difficoltà, in quanto la volatilizzazione di ingenti quantità di azoto gassoso in forme non innocue da un punto di vista ambientale (principalmente NH3, ma anche NO3 e N2O) ha reso obbligatorio per legge il trattamento in ambienti chiusi, con filtraggio o lavaggio dell’aria esausta, con conseguenti costi insostenibili a livello aziendale.
In definitiva siamo di fronte a un’ampia gamma di proposte per il trattamento degli effluenti, ma poche al momento risultano realmente compatibili tecnicamente ed economicamente con la realtà delle aziende zootecniche; forse la ricerca che si sta sviluppando nel settore porterà a rendere concretamente applicabili alcune soluzioni innovative, garantendo un ventaglio di opzioni tra cui scegliere quelle più adatte per il contesto in cui si opera, tenendo presente l’opportunità di combinare tra loro sistemi diversi e la possibilità di applicazioni a livello consortile e territoriale, che possono rendere fattibili soluzioni insostenibili per la singola azienda.

Gli effetti

Bibliografia
Bonazzi G., Fabbri C. (2007), Soluzioni aziendali per ridurre il carico di azoto, L’informatore agrario 1, 43-45
Bonazzi G., Piccinini S., Fabbri C. (2007), Tecnologie innovative per il trattamento dei liquami, Suinicoltura 11 (Supplemento), 2-11
Chiumenti R., Chiumenti A. (2008), Nitro-denitro unica tecnologia collaudata, L’informatore agrario 29 (supplemento), 44-46
Fabbri C., Bonazzi G., Moscatelli G., Navarotto P. (2008), Soluzioni possibili per ridurre le eccedenze di azoto, L’informatore agrario 18, 41-44
Navarotto P., Porro M., Fabbri C. (2007), Abbattimento dell’azoto, tante tecniche tra cui scegliere, L’informatore agrario 1, 47-49
Piccinini S., Fabbri C., Sassi D. (2007), Azoto nei liquami, i metodi per rimuoverlo, Suinicoltura 11 (Supplemento), 24-32
Provolo G., Riva E., Serù S. (2008), Gestione e riduzione dell’azoto di origine zootecnica – Soluzioni tecnologiche e impiantistiche, Quaderni della ricerca n. 93, Regione Lombardia

Francesco Teri, laureato in Scienze e tecnologie agrarie presso l’Università degli Studi di Firenze, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Economia, ecologia e tutela dei sistemi agricoli e paesistico-ambientali presso l’Università degli Studi di Udine. E-mail: costerella@supereva.it

 

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