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La Capra Alpina Comune: tassello fondamentale per ricostruire la storia delle attuali razze caprine alpine

di Luigi Andrea Brambilla

Utilizzare l’aggettivo “razza”, nella sua concezione classica, per indicare la capra Alpina Comune è sicuramente riduttivo dal punto di vista zootecnico. La capra Alpina Comune o Alpina Locale, si tratta infatti di una “macro-popolazione” che gli zootecnici del passato (primi del ‘900) individuavano molto precisamente sia nelle caratteristiche morfologiche (-il famoso tipo alpino, differente dal -tipo asiatico-mediorientale e da quello -africano), sia nella localizzazione territoriale di allevamento (-l’arco alpino geografico). Ripercorrendo la storia dell’Alpina attraverso i testi zootecnici dove si descrive la capra (Rozier-1785; Tessier-1837), come è stato più volte riportato dal Presidente della Società di Ethnozootechnie Bernard Denis, non si ha inizialmente un vero e chiaro riferimento alla capra alpina, ma solo alla chèvre commune (capra comune). Bisognerà infatti attendere André Sanson nel 1886 (Traité de Zootechnie, tomo V°) per veder comparire il termine Race d’Europe-Varieté des Alpes (razze europee-varietà delle alpi). In Italia Faelli, nel suo manuale sulle razze Bovine Equine Suine Ovine e Caprine, parla di Razza Comune nel 1903 e di Razza Alpina o Comune Europea nel 1917. In tutti i casi la descrizione morfologica converge comunque in un tipo solo di animale. 
Partendo da lontano, è ormai assodato, che la presenza della capra nel territorio dell’arco alpino si deve far risalire alle migrazioni dei popoli danubiani che, attraverso i Balcani, giunsero nei nostri territori intorno al V° millennio a.C. Nell’arco alpino, infatti, non è mai stata ritrovata nessuna testimonianza della capra nella sua forma selvatica. I reperti ossei e di materiale corneo di più antica data, ci testimoniano la presenza di un tipo di animale simile a quello attuale e sicuramente già domesticato per la vicinanza e la disposizione dei reperti rispetto agli insediamenti umani (in foto sono rappresentati reperti di corna a sciabola/scimitarra).
L’opera dell’uomo-allevatore diede in seguito origine alla popolazione caprina alpina giunta fino a noi.  Una popolazione con caratteri morfologici variabili (non standardizzati) soprattutto nella forma e dimensione delle corna (più evidente nei maschi) e nel mantello (policromia). Questo fenomeno è tipico della pressione selettiva esclusivamente funzionale (pelli; carne; latte) post-domesticatoria che, spesso, ha reso inizialmente le popolazioni zootecniche meno uniformi nei caratteri morfologici estetici. Infatti per una maggior protezione dell’uomo dai predatori selvatici è stato possibile il manifestarsi di caratteri a ridotto mimetismo funzionale rispetto ai progenitori ancestrali (Capra aegagrus).
Recentemente, nel secolo scorso (anni ’20-’50), da questa popolazione si sono staccati alcuni gruppi che, per omogenee zone di allevamento prima e per una primaria uniformità di mantello poi, sono stati riconosciuti come razze vere e proprie e avviate alla selezione attraverso la standardizzazione vera e propria (uniformità secondaria). Questa forma primitiva di miglioramento aveva già riguardato altre specie zootecniche (bovini, ovini e suini), a partire dall’800, ma aveva parzialmente risparmiato la specie caprina perché di poco interesse economico. Un primo tentativo, riportato in alcuni testi, di costituzione delle razze caprine si deve però alla fondazione dei consorzi di allevamento che furono fondati alla fine del XIX secolo in Svizzera nel Saanen e nel Toggenburg. 
La totalità delle razze che popolano l’arco alpino italiano ed estero derivano, pertanto, proprio dalla capra alpina, ma spesso viene dimenticato o non riconosciuto. Ne è un’ulteriore testimonianza la teoria di Ettore Mascheroni esposta nel suo trattato “La Capra” (Biblioteca Agricola GB Paravia & C. 1928) al capitolo “Le principali razze di capre europee. Infatti nel descrivere la capra Comune o Alpina afferma: <<….l’ambiente e la selezione hanno dato origine a parecchie varietà della capra Alpina, che, senz’altro, si possono ritenere vere e proprie razze, avendo ormai caratteri fissi e ereditari.>>. Mascheroni prosegue poi con la descrizione di quelle giunte sino a noi, compreso Saanen e Camosciata delle Alpi la cui storia, in quest’ultima razza, è fortemente legata alla fusione di più popolazioni locali a medesima cromia di mantello presenti all’epoca in Svizzera.
Così, il passato successo delle razze selezionate cosmopolite (anni ’80) e, tal volta, quello più recente (anni ’90), di quelle autoctone ufficiali di origine alpina, unitamente alla perdita della memoria storico-zootecnica dell’origine dell’Alpina Comune, ha relegato questa “macro-popolazione” fra le razze caprine ignorate, o meglio da dimenticare.
La storia dell’Alpina Comune, invece, non andrebbe mai trascurata quando si va ad intervenire sulla salvaguardia delle razze a rischio di estinzione e a maggior ragione quando si opera nella genetica molecolare per lo studio della biodiversità caprina.
Oggi è fondamentale comprendere che questa macro-razza è grande fonte di biodiversità culturale (presenza di tanti sistemi di allevamento pastorale), economica (grande varietà qualitativa e quantitativa di prodotto) e genetica. Senza dimenticare inoltre la grande potenzialità di miglioramento data dalla elevata numerosità di capi (stimati circa 100.000 soggetti, solo in Italia). Il Verbano Cusio Ossola è fra i territori che contribuiscono maggiormente a questa biodiversità, per il grande numero di stalle in cui viene allevata la capra Alpina Comune. Esiste però un subdolo pericolo. Infatti, cosa che non accade più se non in maniera marginale nella razze locali a maggior consolidamento ed attualmente ufficializzate, nell’Alpina è radicato l’uso di soggetti riproduttori di razze selezionate (Camosciata e Saanen). Questo porta progressivamente ad un inquinamento ed ad una erosione genetica deleteria per l’originalità di questa macro-razza. Non va trascurata inoltre l’ancora più grave erosione territoriale (sottrazione di territorio di allevamento pastorale). La soluzione esiste, ed è quella che tutti gli allevatori di capra Alpina, di razze selezionate e di razze locali ufficiali e non, capiscano quanto sia importate collaborare per il bene delle proprie razze (corretta gestione dei riproduttori; corretta etica di salvaguardia), senza che alcune di esse soccombano per una minor popolarità o indifferenza amministrativa.


J. Nattan, La chèvre, La Maison Rustique 1947, IV° edizione


Riedel 1955/56: citato da Marcuzzi e Vannozzi, l’Origine degli animali domestici, Edagricole 1981

Tratto e aggiornato da: – Razze Caprine Alpine Locali e identità pastorale: la capra Bionda e il formaggio Fatulì – Brambilla Luigi Andrea,  Convegno Istituto Nazionale Economia Agraria (INEA): Antiche sementi e razze originarie delle aree rurali: lavoro, cultura e prodotti tipici
29 ottobre 2008 ROMA

Luigi Andrea Brambilla, laureato in Scienze Agrarie con indirizzo zootecnico all’Università di Milano, ha maturato la sua esperienza lavorativa nel campo della tutela delle razze caprine alpine, svolgendo numerosi lavori di ricerca, coordinando differenti progetti di salvaguardia, contribuendo alla stesura di alcuni standard di razza. Attualmente è esperto di razza (Registri Anagrafici Assonapa-ROMA), per alcune razze ovi-caprine alpine. Curriculum vitae >>>

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“L’allevamento della capra”

Razze di capre, gestione, produzione e trasformazione del latte
Giovanni De Luca – Edagricole

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