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di Carlo Angeletti

Il “sapere ecologico tradizionale” comprende le conoscenze riguardanti il mondo naturale (inteso nelle sue componenti biotiche e abiotiche) e le sue relazioni con l’uomo, acquisite attraverso l’osservazione dei fenomeni naturali e la loro descrizione tramite le categorie proprie delle tradizioni dei vari popoli. Tali conoscenze vengono tipicamente trasmesse oralmente, di generazione in generazione, e si evolvono attraverso periodi tempo assai più lunghi rispetto ai tempi i quali progredisce il sapere scientifico al quale siamo abituati. Nel contesto tradizionale il susseguirsi delle stagioni, l’agire e l’interagire dei fattori ecologici, il passaggio da una successione ecologica ad un’altra e, in generale, ciò che è legato allo svolgersi della vita dell’ecosistema assume un significato mitico – religioso, e viene descritto tramite leggende, credenze e superstizioni. Rispetto al sapere scientifico accademico la TEK fornisce informazioni di natura qualitativa piuttosto che quantitativa, presenta forti componenti intuitive piuttosto che razionali, discende da una visione olistica del mondo piuttosto che riduzionista, è morale e spirituale, e spiega i fenomeni in maniera puramente empirica legandosi in questo modo al particolare contesto in cui si sviluppa (cfr Berkes).
Tale forma del sapere è stata per molto tempo bistrattata in ambito accademico, venendo considerata inadatta a fornire previsioni esatte circa i fenomeni naturali, e pertanto incapace di condurre l’uomo verso la strada del progresso e dello sviluppo. Nell’ottica positivista i modelli tradizionali sono un qualcosa destinato ad essere sopravanzato in ogni angolo del globo dall’affermarsi del modello occidentale e del razionalismo, una “conoscenza di serie B”  di interesse esclusivamente antropologico.
Le culture tradizionali sono effettivamente minacciate dall’incedere della globalizzazione in tutti i contesti: il linguista Michael Krauss afferma che delle quasi 6000 lingue parlate sulla terra all’inizio del ventesimo secolo la metà siano ormai scomparse, insieme con le culture che le rappresentavano. Delle rimanenti circa l’80% sono “in via d’estinzione”, essendo parlate solo da gruppi ristretti di anziani (P. A. Cox 1999). Tuttavia, al contrario di quanto affermato dai positivisti, l’adesione ai valori e al sistema economico occidentale che si osserva ormai in ogni parte del globo non ha portato ne benessere ne tantomeno uno sviluppo compatibile con le esigenze delle generazioni future nei contesti un tempo tradizionali.
Vedremo come e perché lo studio delle forme conoscenza tradizionale abbia assunto nuovo interesse presso gli scienziati, e forniremo brevemente alcuni mezzi di indagine utili al ricercatore che voglia approcciare questa materia.


Guaritore tradizionale in Uganda

Conservare i saperi tradizionali
Dagli anni ’60 in poi è maturata nella comunità internazionale una consapevolezza sempre maggiore circa gli squilibri portati dal modello di sviluppo industriale, tanto in campo ambientale quanto in campo sociale. Problemi quali i cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse, l’inquinamento e la scomparsa degli ecosistemi, il dilagare della povertà e dei conflitti nei paesi in via di sviluppo hanno assunto proporzioni tali da conquistare l’attenzione dell’ opinione pubblica, spingendo i governi e le istituzioni a tentare di porvi rimedio. Senza soffermarsi sulle ragioni di tali squilibri e su come essi siano intimamente legati al sistema economico capitalista – liberista, per cui rimando alla folta letteratura specializzata, si osserva come dalle conferenza di Bangkok (1965) e Stoccolma (1972),  Rio de Janeiro (1992), Kyoto (1997) fino al recente vertice di Johannesburg (2002) i capi di stato, le ong, e gli altri attori coinvolti abbiano riconosciuto la necessità impellente di elaborare un sistema di sviluppo che sia equo dal punto di vista della distribuzione delle risorse e che non comprometta l’integrità dell’ecosistema, in modo da consegnare intatto alle generazione future quanto le generazioni attuali hanno ereditato; un modello di sviluppo sostenibile.
All’interno del dibattito sulla sostenibilità trova spazio la tematica della conservazione dei saperi e delle culture tradizionali, come aspetto fondamentale del modello di sviluppo al quale aspirare. L’ Unione Europea come altre istituzioni, ha emanato in proposito numerosi regolamenti volti a contrastare la scomparsa di prodotti, idiomi e tipicità locali, introducendo marchi e certificati di qualità, elargendo finanziamenti che contribuiscono a creare un mercato per tali prodotti.
Viene da chiedersi perchè, tanta attenzione è stata rivolta negli ultimi anni alla conservazione dei saperi e delle culture tradizionali da parte dei governi, delle Nazioni Unite ma anche enti di ricerca e ONG, tanto nei paesi in via di sviluppo quanto nei cosiddetti “paesi sviluppati”, e come questa sia connessa con l’idea di sviluppo sostenibile.
Bisogna dire intanto che è insita in molte culture tradizionali, proprio perché rurali e intimamente legate all’ambiente naturale,  la consapevolezza della fragilità dell’ecosistema della necessità di conservarlo. Esse si sviluppano in equilibrio con il mondo naturale e si considerano parte di esso, al pari di tutti gli altri esseri viventi. La dicotomia uomo – ambiente, dalla quale discende l’attitudine a considerare l’ecosistema come un’entità della quale l’uomo può disporre a suo piacimento, è tipicamente occidentale, e pertanto estranea ai contesti tradizionali di cui si tratta.
Riporto a questo proposito, l’esempio della tribù dei Quichua, dell’ Amazzonia Ecuadoriana, sulla quale hanno lavorato tesisti del gruppo di ecologia tropicale dell’Università di Firenze, coordinati dal Prof. Lenzi – Grillini. Come molti altri popoli dell’Amazzonia anche i Quichua non considerano l’ambiente circostante come una loro “proprietà” su cui esercitare un dominio, quanto piuttosto come un luogo da preservare (Sumac Causana Alpa) dal quale trarre beneficio avendo cura di conservarne l’integrità. Questa visione del mondo costituisce la chiave con la quale i Quichua costruiscono il loro sistema produttivo, in equilibrio appunto con l’ecosistema: usano i prodotti offerti dalla foresta per la loro alimentazione, per erigere abitazioni, per curare i malanni, per compiere rituali, come fonte di energia e di materiali vari senza mai perdere di vista l’aspetto la perpetuazione delle specie. Nel raccogliere le foglie di Uchsa, essi hanno la cura di lasciare un certo numero di foglie sulla pianta e di non recidere il germoglio centrale, per favorire la rapida rigenerazione; gestiscono il territorio identificando ogni habitat o ecosistema a seconda della particolare specie o risorsa che vi si può trovare (es. “cushillu urcu” è la montagna della scimmia, “ishpingu yacu” è il fiume della cannella), considerando zone tabù, accessibili solo agli sciamani, quelle aree in cui la biodiversità è particolarmente alta. Tali aree sono viste come “scenari di rigenerazione della vita”, abitate e protette da esseri superiori. Infrangere queste regole comprometterebbe, l’intero rapporto uomo – natura (cfr Bruschi).
Sistemi di pensiero di questo tipo costituiscono un’importante patrimonio per l’umanità, in quanto risultano essere un esempio di sviluppo sostenibile, un modo estensivo di utilizzare l’ecosistema alternativo a quello intensivo legato alla produzione su larga scala, che non deve perdersi in futuro. Come in una banca del germoplasma conserviamo il patrimonio genetico di una specie, così è indispensabile conservare una testimonianza di tali culture, non solo ex situ, ma anche e soprattutto in situ, in modo da dar loro la forza di affermarsi (Bruschi).


Donna Quichua

Altra ragione che spinge alla conservazione dei saperi locali, specie riguardo al mondo vegetale, è data dal contributo che tali conoscenze hanno fornito nell’ultimo secolo, e continuano a fornire, alla ricerca di nuovi estratti e composti utili in vari campi, specialmente quello farmaceutico. Il caso dello scienziato Paul A. Cox è esemplare in questo senso: egli, nel corso di una ricerca sulla medicina tradizionale praticata da alcune popolazioni indigene delle isole di Samoa, s’imbatte in un particolare rimedio per le patologie del fegato estratto dalla specie arborea Homalanthus nutans. I risultati di tali ricerche interessarono alcune case farmaceutiche e, da successive indagini svolte dal U.S. National Cancer Institute, emerse che tale rimedio era attivo nell’inibizione del virus dell’ Hiv. 


Guaritrice Samoana impegnata a scortecciare un ramo del “mamala tree”
(Homalanthus nutans), impiegato come  rimedio per l’epatite

Lo studio delle conoscenze tradizionali riguardanti il mondo vegetale rientra nel campo dell’etnobotanica etnobotanica. Nel prossimo paragrafo descriveremo brevemente qual sono gli aspetti principali di questa materia, e come avviene un’indagine etnobotanica.

L’Etnobotanica
Iniziata nel 1896 da Harschberger, come semplice elenco di specie raccolte dai popoli aborigeni, l’etnobotanica ha assunto sempre più nel corso degli anni i connotati di una scienza multidisciplinare, prendendo in considerazione i vari aspetti antropologici, economici, farmacologici, ed ecologici legati all’utilizzazione delle piante. Essa, oltre a costituire il mezzo tramite il quale si accede al sapere ecologico tradizionale, si occupa di mettere tale sapere al servizio della comunità. Le conoscenze acquisite in campo etnobotanico, ad esempio, hanno costituito in molti casi il punto di partenza per la commercializzazione di Non Timber Forest Products, ovvero quei prodotti raccolti e lavorati presso comunità rurali secondo metodi tradizionali (esclusi il legname e la legna da ardere), con beneficio degli stessi raccoglitori. I vari lavori svolti proprio sui NTFP mostrano come questi possano costituire un valido punto di partenza per la risoluzione dei problemi economici di molte comunità rurali, senza aumentare ulteriormente la pressione antropica sull’ecosistema e senza costituire un trauma per la fragile integrità di queste genti (ICRAF 1996).  

Peculiarità del metodo di ricerca etnobotanica è l’indagine con mezzi scientifici di forme di conoscenza non scientifiche. Il ricercatore assume il punto di vista della popolazione in esame, utilizzando, accanto alle categorie tassonomiche accettate dalla botanica classica (genere, specie, etc..) quelle locali. Egli identifica delle etnospecie (tale termine viene usato in questa sede come traduzione di “folk generic”, coniato dal Berlin nel 1973 in Folk Systematics in realtion to biological classification and nomenclature) alle quali si riferisce con i loro nomi comuni o vernacolizzati  (Lombardini et al.). Tali categorie possono o meno coincidere con le specie comunemente riconosciute dalla botanica convenzionale; in particolare un’etnospecie può comprendere più specie classiche (under differentiation Signorini et al. Conoscenze etnobotaniche e saperi tradizionali nel territorio di San Miniato –Pisa), o ci si può riferire alla stessa specie botanica con più di un appellativo (over differentiation). Le etnospecie possono essere delineate sulla base del loro aspetto, del tipo di utilizzazione che se ne fa, o di altri fattori legati alla cultura della popolazione locale.
La conoscenza della lingua locale, o comunque di una lingua parlata dalla popolazione locale, assume un ruolo chiave nel corso di un’indagine etnobotanica: in primo luogo perché, essendo i saperi tradizionali in genere trasmessi oralmente, non c’è altro modo se non il confronto diretto con gli abitanti per accedervi. Nel caso non sia possibile raggiungere una certa  familiarità con l’idioma locale si ricorre alla presenza di un interprete, possibilmente di fiducia e provvisto di competenze botaniche. In secondo luogo, essendo gran parte dell’indagine svolta sulla base di interviste agli abitanti, è molto incisivo rispetto alla qualità e la quantità dei dati raccolti il grado di fiducia che la comunità ripone nel ricercatore; da questo punto di vista barriere linguistiche e intermediari costituiscono di certo un ostacolo per la buona riuscita della ricerca. Infine la lingua costituisce parte dell’oggetto stesso dell’indagine: essa ci da infatti informazioni sul modo in cui una popolazione categorizza i fenomeni naturali e, in generale, guarda al mondo. I nomi delle etnospecie, come anche i toponimi locali, sono pertanto riportati nell’idioma locale, con una spiegazione del loro significato.
Come accennato in precedenza, il ricercatore etnobotanico si affida nella sua indagine a informatori che interpella, generalmente, sulla base di questionari. In questo il metodo di indagine degli etnobotanici assomiglia a quello usato in antropologia, e richiede le stesse competenze di base. Tramite gli informatori il ricercatore acquisisce informazioni riguardo i nomi delle specie vegetali usate dalla popolazione, i loro possibili usi, la modalità ed epoca di raccolta, le parti di pianta utilizzate. La selezione degli informatori e la definizione dei questionari sono quindi aspetti cruciali nell’ indagine etnobotanica. Gli informatori possono essere presi a caso tra gli abitanti del luogo, o scelti secondo vari criteri. Ad esempio si può partire dal presupposto che una determinata categoria di popolazione sia più adatta a fornire informazioni riguardo un certo numero di specie e essere selezionata in maniera privilegiata. Le donne, ad esempio, sono in molte comunità addette alla raccolta di specie vegetali per i più svariati usi (Signorini San Miniato vedi bibliografia) e custodiscono per tanto molto del sapere tradizionale in materia. Se si vogliono approfondire le piante rituali si dovrà magari chiedere agli sciamani, mentre si dovranno interpellare i guaritori per le piante medicinali. A seconda dello scopo della ricerca e del livello di approfondimento desiderato i questionari potranno toccare solo aspetti squisitamente botanici, o spaziare magari alle potenzialità di mercato di un dato prodotto, chiedendo ad esempio a quale prezzo i produttori riescono a venderlo, a quanto ammontano le vendite, come è costituita la filiera i trasformazione di un prodotto, nel caso questo venga trasformato. Oppure il ricercatore può essere interessato agli aspetti colturali e alle tecniche tradizionali di raccolta, o alle credenze legate ad una particolare specie.
L’utilizzo dei questionari è molto dibattuto fra gli etnobotanici. Se da un lato essi costituiscono una traccia chiara e netta che guida i colloqui con gli informatori e forniscono informazioni subito registrate e facilmente traducibili in forma quantitativa, quindi manipolabili statisticamente, dall’altro essi costringono l’informatore a parlare solo di ciò che il ricercatore ritiene interessante (sulla base delle sue conoscenze), nella modalità voluta dal ricercatore. Questo metodo può mettere a disagio l’informatore e renderlo meno incline a parlare, e limita le potenzialità di approfondimento della ricerca a ciò che si conosce a priori della comunità.
Ingabbiando la conversazione entro schemi rigidi, si esclude la possibilità di adattare le domande alle informazioni che via via si acquisiscono. Una guida troppo rigida nell’intervista può influenzare le risposte rendendole  fuorvianti e di scarsa validità scientifica. I ricercatori ovviano a questi inconvenienti preparando dei questionari da utilizzare come semplice traccia (magari annotando semplicemente le informazioni alle quali si vuole arrivare in ogni intervista) e lasciando poi che l’informatore parli liberamente, guidando l’intervista solo quando la conversazione si sposta su argomenti decisamente irrilevanti ai fini della ricerca. Le domande vengono poste in maniera che non influenzino la riposta. Es. chiedere “che nome ha quella montagna” può indurre l’informatore a sforzarsi di trovare un nome per non fare brutta figura, anche se magari non lo ricorda o non sa se il nome esiste. Vengono quindi poste domande tipo “Ha un nome quella montagna?”, “Ci sono animali che si abbeverano in questo fiume?”
Nel corso di un’ intervista, l’informatore indica in genere una quantità di etnospecie che il ricercatore dovrà poi, in un secondo momento, raccogliere sul campo (l’informatore stesso o un botanico locale dovrebbe accompagnare il ricercatore in questa fase), identificare, catalogare, essiccare ed, eventualmente se la ricerca lo richiede analizzare in laboratorio. In questa fase la ricerca assume più i connotati di un’indagine botanica classica. I campioni raccolti dovranno quindi essere in buone condizioni al fine di facilitarne l’identificazione, con tutte le parti di importanza tassonomica per quanto possibile integre e visibili, possibilmente provvisti di fiori e frutti (i progetti meglio riusciti sono quelli che prevedono più sopraluoghi nell’area, seguendo le diverse stagioni e le diverse fasi fenologiche delle specie), preparati adeguatamente per tutte le future analisi. Al fine di rendere i risultati accessibili e verificabili dal resto della comunità scientifica, essi vengono pubblicati in forma scritta, (al pari di ogni altro studio illustrando passo per passo il metodo di lavoro utilizzato, fornendo tutte le informazioni necessarie riguardo il sito in esame, delineando in maniera chiara le conclusioni a cui si è arrivati) e, in genere, legati ad un erbario in cui vengono conservati sotto vetro i campioni raccolti.
Nell’erbarium vengono indicati, per ogni specie, sia il nome scientifico sia quello vernacolizzato e, in breve, l’uso che gli abitanti del luogo fanno di quella pianta.

Bibliografia
– P. Bruschi (2003) Etnoecologia e valore della sussistenza  
– Lombardini, Bruschi, Signorini  (2003) Ricerca etnobotanica. Un’indagine nel territorio di San Miniato
– Signorini, Lombardini, Bruschi (2004) Conoscenze etnobotaniche e saperi tradizionali nel territorio di San Miniato (Pisa)
– G.J. Martin (2004)  Ethnobotany: a methods manual  
– ICRAF (1996) Domestication and commercialization of non – timber forest products in agroforestry systems 
– P. A. Cox (1999) Will Tribal Knowledge Survive the Millennium?
– Fikret Berkes (1991)  Traditional ecologicl knowledge in perspective  
– John Kurien (1998) Traditional Ecological Knowledge and Ecosystem Sustainability: New Meanings to Asian Coastal Proverbs 
– Hardison (2005) Traditional Knowledge of Indigenous Local Communities: International Debate and Policy Initiatives F. Mauro P.D.
– J.B. Alcorn (1995) Economic Botany, Conservation and Development: What’s the Cnnection?
– A.A. Yengoyan (1996) Ecological Analysis and Traditional Agricolture  

Carlo Angeletti, laureato in Scienze Forestali e Ambientali presso l’Università di Firenze, è iscritto al corso di Laurea specialistica in Scienze dello Sviluppo dei Sistemi Agrari Tropicali e Subtropicali. Curriculum vitae >>>

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